«Che angoscia non sapere quando potremo riaprire» 

Esercizi pubblici. Chiuso da più di 40 giorni dopo 40 anni di attività ininterrotta o quasi,  il Bar Sport di Lavis con il suo titolare, Gino Rossi, attende con ansia il ritorno alla quotidianità


DANIELE ERLER


Lavis. «Che destrani del café, del Sprizon, de do ciacere e de la macchina col toro che sluzega. Che destrani». Letteralmente: «Che nostalgia del caffè, dello spriz, di due chiacchiere e della macchina con il toro che luccica. Che nostalgia». È una poesia in dialetto trentino, scritta su un foglio di carta che è stato appeso da un cliente, sulla serranda abbassata del “bar Sport”, in via Rosmini a Lavis. Ed è uno dei tanti simboli di questo periodo strano e difficile: «Mi ha fatto quasi commuovere», dice Gino Rossi, 70 anni, quasi 40 passati dietro al bancone di quel bar. Ha aperto nel 1981 e non ha chiuso praticamente mai: «Ai tempi d’oro, fino a metà degli anni Novanta, in paese ogni bar faceva 15 giorni di ferie in estate. Ci alternavamo. Con la crisi è cambiato un po’ tutto: ultimamente chiudevamo al massimo per una settimana. In tutto il 2019 ho fatto solo sei giorni di ferie. Ho regalato un viaggio di tre giorni a mia moglie». Poi è arrivato il coronavirus: dall’11 marzo il “bar Sport” è chiuso. Dopo più di un mese, ancora non si sa quando e come gli sarà permesso di riaprire.

Nostalgia dei clienti

«Mi mancano. Mi mancano gli amici del bianchetto. Le signore del cappuccino. L’operaia che veniva per pranzo. E quelli che passavano la sera dopo il lavoro. Non è solo una questione economica. È soprattutto un aspetto affettivo: in questi giorni continuo a pensare ai miei clienti più fedeli – dice Gino –. Qui a Lavis è diverso rispetto al bar di città, dove ci sono soprattutto persone di passaggio e turisti. Da noi ci sono clienti che impari a conoscere, con le loro confidenze e abitudini. Sono quelli che entrano e sai già che panino ordineranno». In effetti il “bar sport”, come i tanti altri locali di Lavis, incarnano a pieno la dimensione sociale del paese. Qui si svolgono storie di ordinaria quotidianità. Ma è proprio quando quella quotidianità crolla che tutto assume un significato diverso. «Eravamo abituati ad andare sempre avanti, come un fiume in piena. Ci sentivamo costretti a lavorare senza fermarci mai. Ora forse stiamo iniziando a scoprire qualcosa di diverso. Forse questa situazione ci ha messi con i piedi per terra. Ora speriamo solo che per terra non ci metta anche con il sedere».

La fase due dei bar

In effetti ancora non è chiaro su quale potrà essere la fase due dei bar. Sui giornali si fanno ipotesi più o meno verosimili. C’è chi immagina i tavoli schermati dai plexiglass. E come si potrà bere una birra, con una mascherina? «Non sapere quando potremo riaprire sta diventando angosciante – dice Gino –. Io forse sono fortunato perché ho degli spazi aperti. Dal momento in cui si svuoteranno gli ospedali, speriamo che la politica abbia anche un po’ di coraggio e ci dia il permesso di riaprire». Di certo, nel breve periodo non sarà più lo stesso. Non ci saranno più le decine di persone appoggiate al bancone. Ma se guardi in questi giorni via Rosmini al mattino, ti accorgi che anche a Lavis le persone hanno ripreso a uscire per strada. C’è voglia di rinascita. Resta da capire se questo è possibile, senza compromettere tutti i sacrifici fatti finora.















Scuola & Ricerca

In primo piano