Quarant’anni fa, l’inizio di tutto

Il 24 maggio 1969 la posa della prima pietra della Ignis. Da allora, una lunga storia industriale cittadina


di Luigi Sardi


TRENTO. Flaminio Piccoli l’aveva definita con sincera enfasi “la cattedrale del lavoro”. Era la mattina di quel 24 maggio del 1969, il giorno della posa della prima pietra a Spini di Gardolo, della Ignis di Giovanni Borghi. Davanti al segretario nazionale della Dc, decine di donne e uomini in tuta blu, accanto l’allora ministro del Tesoro Emilio Colombo.

Quella era una data molto importante. La sera prima la Democrazia Cristiana aveva aperto la campagna elettorale in un Teatro Sociale gremito dal grande popolo della Dc e Flaminio Piccoli era entrato nel teatro tenendo sotto braccio Rocco Rino Perego firma di spicco del giornale L’Adige, seguito dal presidente della Regione Giorgio Grigolli e dal sindaco Edo Benedetti. Con loro il presidente della giunta provinciale Bruno Kessler, il segretario provinciale della Dc Giorgio Postal, il presidente degli Industriali Ito Del Favero poi i senatori Dalvit, Spagnolli, Berlanda e Segnana.

Era, quello del Sessantanove, un anno passato alla storia per le lotte studentesche e per l’unità fra operai e studenti. Per il Trentino - lo ha scritto Sandro Schmid nel libro «30 Luglio 1970 - Storia della Ignis» edito dalla Temi - era una stagione particolarmente animata dal movimento studentesco della Facoltà di Sociologia con leader come Mauro Rostagno e Marco Boato e da un inedito movimento unitario dei sindacati metalmeccanici guidato da Giuseppe Mattei, Sandro Schmid e Livio del Buono. Nel gennaio, con l’incubo della bomba di Piazza Fontana che cambiava l'Italia, Piccoli era stato eletto segretario nazionale della Dc e subito le trattative iniziate con Borghi già nel 1964 avevano subìto un’accelerazione. Piccoli voleva uno stabilimento dell’imprenditore di Comerio a Trento anche se Borghi annusava un’aria di crisi. La spinta del boom economico cresciuta con forza agli inizi degli anni Sessanta, si stava esaurendo, i consumi degli elettrodomestici tendevano ad essere saturi, la Ignis cominciava a soffrire una crisi di liquidità. Si fece avanti il Comune di Trento vendendo a Borghi 219.000 metri quadrati di terreno al prezzo stracciato di 500 lire al metro pagando tutte le infrastrutture: il binario ferroviario, l’elettrodotto, una strada di collegamento con la rete viaria, finanziando a Varese la formazione professionale per i primi gruppi di lavoratori trentini destinati ad essere assunti a Spini.

Il 2 gennaio del 1970 i primi 100 lavoratori entrano in fabbrica, il 7 gennaio la catena di montaggio scarica la prima lavastoviglie e l’8 gennaio il giornale informa che la Ignis arriverà ad occupare 1500 lavoratori ma Borghi, in crescente difficoltà di mercato, deve aprire alla Philips che acquisisce il 50% delle azioni.

Poi arrivò il 30 luglio del 1970, il famoso, tragico corteo che portò alla gogna il massimo esponente del Msi (il Movimento Sociale Italiano) di Bolzano l’avvocato Andrea Mitolo e il segretario della Cisnal di Trento Gastone Del Piccolo costretti a camminare per ore da Spini fino in Piazza Duomo e al Santa Chiara dove erano stati ricoverati due operai Ignis feriti sui cancelli dello stabilimento negli scontri con un gruppo di missini. I due uomini del Msi vennero costretti a portare al collo cartelli con la scritta: “Siamo fascisti, oggi abbiamo accoltellato 3 operai Ignis. Questa è la nostra politica pro operai”. Quel giorno cominciò una stagione di violenze e di attentati culminata con un micidiale ordigno collocato nei giardinetti antistanti Palazzo di Giustizia. Doveva esplodere fra la massa di studenti e operai che si sarebbe assiepata in quel luogo in occasione di un processo nei confronti di uno studente e un prof di Sociologia, udienza fortunatamente rinviata. Si sospettò che l’attentato destinato a fare una strage, fosse stato organizzato da uomini dei servizi segreti arrivati da Bolzano.

La Ignis di Borghi, assumendo soprattutto operai provenienti dalle vallate, e molti di loro erano racomandati dai parroci e da sindaci di sicura fede democristiana, aveva faticosamente coniugato il mondo contadino del Trentino con quello dell'industria. Era già la metà degli anni Settanta, gravati dal peso e dalle paure di movimenti di piazza sempre più violenti, un'epoca nella quale, alla prima periferia di Trento, si andavano spegnendo centri di produzione, ma anche di buste paga sicure, come la Sloi chiusa per decisione del sindaco Giorgio Tononi all'indomani del famoso incendio del 14 luglio 1978 e l'Italcementi con quei due camini a svettare sulle abitazioni di Piedicastello, che eruttavano giorno e notte, estate e inverno, quintali di polveri che procuravano, se non la silicosi, gravi disturbi alle vie respiratorie.

Chiudevano anche la Prada e la Carbochimica che rappresentavano il primo approccio industriale, divenuto obsoleto, in un territorio sempre incerto fra la vocazione all'agricoltura, al turismo e la voglia di uno sviluppo industriale facilitato dai soldoni che arrivavano dalle borse aperte di Piazza Dante.

Quella era anche l'epoca che vedeva, nella valle di Stava dove si esauriva il filone della fluorite, la Montedison chiudere la miniera lasciandosi alle spalle la bomba delle due famose, tragiche dighe cresciute senza lo straccio di un progetto e la funivia del Cermis correre più in fretta in cerca di un maggior profitto.

In quello scenario di incertezze, di contraddizioni, forse anche di miopia della politica di casa nostra, la Ignis di Borghi restava una sicurezza. Nel corso del 1970 cambiava nome per diventare Iret; certo, il lavoro alla catena di montaggio era stressante, scandito e controllato dai cronometri ma la paga era sicura e se dalle rive del fiume Adige arrivavano segnali sempre più incerti dalla Michelin, l'altro grande polo del lavoro trentino, a Spini di Gardolo si respirava il progresso, l'avvenire dell'elettrodomestico indispensabile in ogni famiglia, il regalo sicuro per quasi ogni matrimonio.

Dopo la prima lavastoviglie uscita fra gli applausi delle massime autorità cittadine il 7 gennaio di 43 anni fa, erano seguite le linee per la produzione di frigoriferi, fino alla “Gemini” l'innovativo frigo a doppia porta, una riservata al congelatore, con l'intercapedine di plastica espansa, in sostituzione della obsoleta quanto ingombrante lana di roccia. La Ignis divenuta Iret, restava sempre una garanzia. Si era anche ammorbidito il ritmo alla catena di produzione, il lavoro si ripeteva fino alla paranoia, i ritmi erano sempre obbligati dallo scorrere della catena di montaggio, ma la busta paga c'era, era proiettata nel futuro, garantiva la pensione, con quella si poteva comperare l'auto a rate, fare un mutuo per l'appartamento, andare in ferie, mandare i figli all'Università.

Certamente la fabbrica di Spini non era più la “cattedrale del lavoro” come l'aveva descritta Flaminio Piccoli nella foga di quel famoso discorso ma nessuno poteva immaginare che sarebbe divenuta un deserto del lavoro, come in deserti si erano trasformate altre realtà industriali svanite dalla faccia del Trentino. Adesso tocca all'antica Ignis spegnersi in uno dei momenti più difficili sia dal punto di vista economico che politico.













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