La pandemia

Le vittime collaterali del Covid: «Il nostro calvario per dare una cura a mio padre»

Il racconto di una donna di Trento, figlia di un 80enne paziente oncologico e colpito da Covid: «Nessuna regia né una presa in carico coordinata: tutto pesa sulla famiglia»



TRENTO. È un racconto carico di delusione e disorientamento (più che di rabbia) quello che una donna di Trento fa per raccontare il “calvario” passato (e non concluso) da lei e dalla sua famiglia per dare una cura adeguata e dignitosa al padre ottantenne.

Persona dalla tempra forte, ma da un paio di anni in lotta con un tumore, l’anziano è stato colpito dal Coronavirus. Un mix che ha generato un graduale ma inesorabile peggioramento delle condizioni, senza che il sistema sanitario fosse in grado di garantire una efficace presa in carico e, anzi, rimbalzando il paziente da un medico all’altro. Una delle tante storie di pazienti con patologie pregresse che troppo spesso sono sacrificati alle (pur legittime) esigenze dell’organizzazione anti-Covid.

«Parto da quello che si prova» - spiega la figlia dell’uomo. «Non ci si sente sfacciatamente abbandonati al proprio destino, non ci sono dei dinieghi ufficiali, niente rifiuti definiti. Si è sempre sul filo, sul detto-non detto, si naviga a vista tra lo spezzettamento delle competenze e delle responsabilità degli operatori che procedono saldi nel rispetto dei protocolli e la persona curata a casa che rimane sempre più sola e priva di opzioni».

Il racconto entra poi nel dettaglio: «12 novembre tampone positivo, per fortuna asintomatico. Dopo 20 giorni tampone molecolare negativo: pericolo scampato. Invece no. L’8 dicembre parte una febbriciattola e tosse. Inizia il calvario. Si lotta per rifare il tampone (non è da protocollo se si è appena guariti). Esito positivo. Cosa si fa ora? “Niente! Deve solo stare a casa, l’unica cosa che conta è il saturimetro” - ci dicono a più voci medico di base, centro covid etc. E se la febbre sale c’è sempre la tachipirina».

Passano i giorni e la febbre sale: «Papà è sempre più debole quindi si avverte il medico di base che ci tranquillizza: è il covid. Intanto la febbre sale e si presentano disfunzioni ad altri organi, ma il saturimetro è ok, meglio stare a casa per il momento non conviene fare nessun accertamento si faranno controlli quando il tampone sarà negativo. Ma la debolezza aumenta giorno dopo giorno, la febbre sale ancora.

Papà, uomo super indipendente, non riesce più a vestirsi da solo. E arrivano i giorni di vacanze. Il medico di base è in ferie, c’è un sostituto, poi un altro che poco sanno di papà, poi c’è il week-end, Natale e Santo Stefano e così via. C’è la guardia medica, molto gentile, ma ovviamente non può sapere nulla della situazione generale di papà.

C’è il dottore gentile dell’ufficio Igiene che, solo per bontà sua, ti rassicura e ti dà buoni consigli (ad esempio di far fare a papà un emocromo....l’abc per un immunodepresso) o una banale lastra di verifica per la polmonite. Ci sono le telefonate random ai reparti per cercare di farsi guidare in una qualche terapia fai-da-te messa in piedi componendo puzzle tra quello che suggerisce l’uno e prescrive l’altro; c’è l’Usca bravo e professionale che viene attivato solo dopo molta insistenza.

Infine c’è il pronto soccorso dove non si dovrebbe mai andare a detta di tutti, ma che in realtà è l’unico porto sicuro, dove però decidono saggiamente di non ricoverarti per il tuo bene, perché sei un immunodepresso e in ospedale non saresti al sicuro. E quindi per il tuo bene devi tornare a casa. Ma chi ti seguirà? Nessuno. Si ricomincia da zero...».













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