Ilaria Andaloro e il teatro sociale: sul palcoscenico passa la vita

Gli attori con cui lavora sono fuori dai canoni tradizionali, dai carcerati ai disabili


Daniele Peretti


TRENTO. La difficoltà non è tanto nel fare teatro sociale, quanto mantenersi come unica fonte di reddito oltretutto a Trento. Ma Ilaria Andaloro ci riesce ed anzi insieme al suo compagno Fabio Gaccioli ha fondato la Compagnia Eleuthera.

«È molto difficile, ma ci riusciamo. La condizione necessaria però è non avere figli ed essere pronti a cogliere tutte le occasioni».

Prima di tutto cos’è il teatro sociale?

Potremmo dire che è il mezzo per portare lo spettacolo in luoghi che nemmeno immagini con attori al di fuori degli schemi come lo possono essere i matti, i carcerati oppure i disabili che vengono definiti attori sociali con i quali si mettono, ma non necessariamente, in scena trame che pur ispirandosi ai testi classici, hanno molto di autobiografico.

Una forma di terapia?

Anche. Fare teatro sociale vuol dire dare voce a chi avrebbe tanto da dire, ma non può farlo come i carcerati o i profughi. Nella recitazione diamo spazio anche alle lingue madri, perché le proprie origini non si devono assolutamente dimenticare.”

Ilaria Andaloro nasce a Trento e dopo il diploma al Liceo Prati, si iscrive alla facoltà di Storia dell’Arte che frequenta a Verona e poi a Bologna. Fino a 33 anni la sua professione è quella di educatrice museale – lavora al Muse, al Mart, al Buonconsiglio – poi la svolta.

La mia passione è sempre stata il teatro e all’età nella quale, forse, molte persone hanno già trovato il loro ruolo definitivo sono ripartita da zero. Sono andata a Roma dove per tre anni ho frequentato l’Accademia di Arte Drammatica ed eccomi nuovamente a Trento come Educatrice Teatrale, regista e attrice.

Come nasce uno spettacolo di Teatro Sociale?

In tanti modi. Principalmente con le scuole. Col Liceo Da Vinci abbiamo un rapporto preferenziale e tramite uno specifico progetto abbiamo realizzato uno spettacolo con dieci studentesse e le carcerate detenute a Spini, eravamo solo donne. Nel 2019 abbiamo lavorato alla Residenza Fersina, ma abbiamo fatto teatro anche con i disabili e per 7 anni siamo andati in scena con attori con disagio psichico.

Realtà diverse per esperienze diverse.

Proprio così, anche perché si cerca di dare la parola a chi non ce l’ha in una forma il più possibile autobiografica. Sappiamo da dove si comincia, ma non abbiamo idea di quale sarà il punto d’arrivo.

È stato difficile portare il teatro in carcere?

Senza la scuola non ci saremmo mai riusciti. Non ci sono solo gli ostacoli burocratici, ma anche le indagini a livello individuale ed essendo in una quindicina di persone non è stato per nulla facile.

Ha mantenuto un rapporto con le carcerate?

Con due in particolare. Con una ci siamo scritte per un paio d’anni poi ci siamo perse di vista. Da via traverse ho saputo che vive in un’altra città. Spero solo che l’esperienza teatrale la possa, ma non solo lei, aver aiutata a superare la difficoltà della detenzione ed a prendere fiducia nel futuro.

Un impegno teatrale che dovrebbe dare molte soddisfazioni.

Le dà. Ma il momento di maggiore tensione emotiva arriva quando mi rendo conto che chi ho davanti inizia a raccontare se stesso dando vita ad una scrittura autobiografica che poi diventerà il testo definitivo. Ci riescono persone al di fuori delle dinamiche sociali e riuscire a stimolarle in questo senso è una soddisfazione immensa.

Solo soddisfazioni o anche delusioni?

Non voglio dire dove, ma una c’è stata ed è stata davvero grande. È successo quando sono entrata in una realtà e ho capito che ci stavano sopportando malvolentieri non pensando nemmeno lontanamente che saremmo potuti essere utili ai loro ospiti. Credere in un progetto ed essere considerati una cosa inutile fa davvero male. È anche vero che in tutti i campi ci sono persone che non credono alle novità, ma nemmeno alla sperimentazione.

State lavorando a qualcosa di nuovo?

Col Centro Teatro stiamo allestendo uno spettacolo di teatro integrato con dieci persone del tutto diverse tra loro. Oltre a vissuti del tutto diversi tra gli altri ci sarà un giapponese, a fianco di un arabo, un francese e un africano. Come al solito ci ispireremo ad un testo classico che sarà poi modificato sulla base di spazi autobiografici, ci saranno interventi nella lingua madre e la rappresentazione avrà anche lo scopo di far imparare la lingua italiana.

Ha un modello al quale si ispira?

Indubbiamente il nostro maestro è Pippo del Bono. Ma alla fine sono gli stessi attori sociali che hanno tanto da insegnarti. Ogni approccio è diverso come diversa è ogni persona. Lavorare con un senza tetto non è la stessa cosa che farlo con una detenuta e diversi sono anche gli scenari nei quali ci si muove. Col teatro sociale il palcoscenico lo diventa la vita e quindi da situazioni diverse c’è sempre da imparare.

E l’Accademia d’Arte Drammatica la aiuta in questo percorso?

In parte. Diciamo che è una formazione importante per l’aspetto tecnico, ma poi tutto quello umano si muove a sensazione, emozione e sensibilità. Il nostro scopo non è tanto quello di andare in scena, cosa che comunque facciamo davanti a parenti, amici e operatori sociali incuriositi o appassionati, quanto dare voce e espressione a chi non ce l’ha.













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