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«Siccità, precise colpe politiche»

«Con la logica dell’emergenza si fanno altri danni e si pensa ad altro cemento, altre aggressioni alla natura», spiega Tommaso Bonazza 


Luca Marsilli


TRENTO. Tommaso Bonazza, portavoce del Comitato permanente per la difesa delle Acque del Trentino, è in prima linea da anni. E proprio per questo di “emergenza” non vuole sentir parlare. «Quello che sta succedendo oggi era previsto da almeno 15 anni, da modelli di cambiamento del clima che si stanno rivelando esatti fino al dettaglio. Quindi no: emergenza proprio no. La logica dell’ emergenza è quella che serve oggi alla politica per assolversi da quello che non ha fatto e quello che ha sbagliato in questi 15 anni. E diventa l’argomento per giustificare altri errori ancora peggiori, come la sospensione dei deflussi minimi vitali. L’ennesima aggressione ai corsi d’acqua come ambienti vitali e, ancora peggio, l’ennesima dimostrazione di quanto poco la politica sappia o voglia fare qualcosa di veramente utile per la soluzione del problema. Noi abbiamo bisogno esattamente di misure opposte: solo restituendo spazio alla natura, e quindi tornando a fiumi più naturali, si potrà almeno in parte risolvere il problema della siccità. E invece con la logica dell’emergenza si fanno altri danni e si pensa ad altro cemento, altre aggressioni alla natura. La politica ha la colpa gravissima di avere perso 15 anni e ora vuole aggiungerci la responsabilità di scelte che alla lunga aggraveranno il problema invece di risolverlo. In nome dell’emergenza, ovviamente».

La domanda logica, è cosa avrebbe potuto fare, la politica. «Ascoltare anche campane diverse da quelle a lei gradite, guardare cosa si stava facendo altrove, imparare dalle esperienze fortunate altrui. I nostri politici poi non dovevano nemmeno allungare l’occhio più di tanto: l’Alto Adige ha lanciato 500 interventi di rinaturalizzazione di ambienti fluviali. Vuol dire rallentare l’acqua facendo tornare i corsi d’acqua quello che erano, con zone umide e aree di espansione, invece di accelerarla facendone canali che corrono tra due argini invalicabili. In questo modo si restituiscono al fiume funzioni fondamentali: la depurazione di acqua e terreni, la regolazione dei microclimi, l’aumento di materia organica nelle zone che attraversa. E la capacità di ricaricare le falde acquifere: sono le falde l’unico vero serbatoio sul quale puntare e quindi servono interventi per aumentare la capacità naturale di trattenere l’acqua dandole il tempo di penetrare nel terreno».

Esattamente l’opposto della impostazione idraulica ormai secolare che premia lo scarico più rapido possibile dell’acqua. La stessa in nome della quale si alzano gli argini e si deforestano gli alvei. «Un modello ormai superato e antiscientifico, la cui inefficacia è ormai dimostrata. Non lo dico io, ma il mondo più evoluto. Che ha preso la direzione opposta. Come anche il vicinissimo Alto Adige sta facendo».

Quindi in questa logica, nemmeno creare dei bacini per l’accumulo dell’acqua è corretto? «Detto che ogni valle e ogni situazione ha le proprie particolarità, in linea generale no: è dimostrato che i benefici sono inferiori ai danni provocati dai nuovi sbarramenti. Perché l’acqua accumulata in superficie evapora e la diga interrompendo i flussi di materiale, altera il corso d’acqua su cui insiste. Sono cose già sperimentate e studiate, arrivando alla conclusione che non è questa la soluzione. Non servono altre aggressioni. O detta in altro modo, non dobbiamo più agire contro la natura, ma assecondandola. C’è un esempio importante, sperimentato in zone aride dell’India. In attesa del monsone sono stati creati tantissimi piccoli fossi, seguendo le linee di quota del terreno. Capaci di trattenere l’acqua il tempo necessario per farla penetrare in profondità invece di correre a valle. In un solo anno si è ripristinato il livello di falda che era sceso in modo drammatico in anni di sfruttamento eccessivo. Lavoro di zappe e badili, non di ruspe e betoniere. Niente mega appalti. A qualcuno non piacerà, ma ha funzionato».













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