Quello che ha scosso il Trentino non è un terremoto politico:perché era prevedibile e persino atteso



Verrebbe voglia di chiamarlo terremoto. O rivoluzione. Ma il politologo Cristiano Vezzoni ha ragione: un terremoto è imprevedibile; quello che è successo invece domenica era ampiamente prevedibile. E anche le rivoluzioni non s’annunciano. E questa era a dir poco annunciata.

La fine dell’anomalia trentina, il repentino pensionamento di una stagione di centrosinistra pressoché eterna, ha però dimensioni che ricordano davvero le scosse telluriche. Il palazzo d’autunno di Piazza Dante ha un nuovo inquilino: il leghista Maurizio Fugatti. In consiglio provinciale i volti nuovi sono moltissimi. Nove - ed è un bel segnale - le donne.

Ieri la storia ieri è cambiata definitivamente. In anni più o meno lontani qualche bordata era arrivata - soprattutto dal voto nazionale - ma il sistema ha sempre retto e a governare - nei secoli, praticamente - è sempre stato prima il centro e poi il centrosinistra, al quale negli ultimi vent’anni è stato aggiunto un prezioso aggettivo: autonomista.

Ebbene, quella storia non c’è più. Per due ragioni. Perché Salvini ha vinto: sì, ancor prima di Fugatti e del centrodestra è stato il vicepremier (vice?) Salvini a dominare queste elezioni: con ciò che ha promesso a Roma, con ciò che sbandiera ogni giorno (pochi e chiari concetti, e non conta molto se siano realizzabili) e con una presenza a dir poco assidua sul territorio. Bastava assistere a un suo incontro o a un suo comizio - con tifo da stadio, selfie e desiderio di contare e di contarsi - per capire come sarebbe finita. Per cogliere che la roccaforte trentina non avrebbe retto a questo doppio cazzotto: prima il pugno in faccia del 4 marzo (sottovalutato), poi il gancio di ieri a un pugile che non ha proprio saputo reagire. Già, perché accanto a chi vince c’è sempre anche chi perde: il centrodestra trentino s’è compattato e, forte di nove liste, ha portato il sottosegretario leghista Fugatti ad un trionfo che non ha precedenti. Il centrosinistra ha fatto l’opposto: non ha imparato la lezione del 4 marzo; s’è diviso; non ha avuto la capacità di corrispondere alle domande di cambiamento che arrivavano dalla società; ha di fatto sfiduciato Rossi mentre ancora governava la Provincia (e Rossi ha reagito nel modo peggiore: candidandosi contro tutti) e non ha saputo approfittare ad esempio dell’unica vera novità del voto trentino. La nascita della Lista Futura2018, movimento spinto dal giornalista Paolo Ghezzi e da molti mondi (di sinistra, di centro, di matrice cattolica, d’esperienza e, per così dire, di fantasia) che hanno cercato di fare sintesi delle richieste di elettori disorientati, lavorando sul concetto di speranza e intercettando certamente molti elettori che, in assenza di proposte come questa, non sarebbero nemmeno tornati a votare. Anche le due liste di sinistra che hanno sostenuto Antonella Valer (e che erano pronte a sostenerere un’eventuale candidatura di Ghezzi alla presidenza) hanno riportato alle urne molti elettori. Ma i trentini vicini a quest’area non hanno gradito lo spezzatino. E va anche detto che è mancato totalmente l’ormai mitico centro, in quel che resta del centrosinistra: la sostanziale scomparsa dell’Upt (che riporta in aula solo il “territoriale” Pietro De Godenz) chiude per sempre la lunga stagione dellaiana. Il Patt ci ha infine messo del suo, cercando ostinatamente la corsa solitaria. Il motto: o con noi o con nessuno. Il risultato: sotto gli occhi di tutti. Rossi s’è tolto più di uno sfizio, ma far rosicare gli altri (antichi) alleati non è esattamente come vincere.

I toni di Fugatti fanno già capire che sarà un presidente pragmatico: pochi ululati e molte parole misurate. Siamo pur sempre nel moderato Trentino, che diamine. E Fugatti sa muoversi da “buon democristiano”, smussando angoli e tenendo calmi i suoi. Primo banco di prova: la tanto vituperata Regione. Difficile dire se Kompatscher e Fugatti, per governarla, punteranno ancora sulla staffetta. Ma in un momento come questo è fondamentale che abbiano un’idea precisa. Perché il messaggio che arriva dal voto vale anche per la Regione: uniti si vince, separati si perde.

E anche l’Alto Adige, ieri, s’è svegliato diverso. Ma forse sarebbe meglio parlare al plurale. C’è infatti un Alto Adige rurale, che s’è confermato quasi impermeabile rispetto a qualsiasi uragano: tedesco, fedele alla Svp, alla storia, alle tradizioni, ad un’identità molto ben definita - e da tutelare - che un voto non può riassumere, ma in parte comunque contenere, per non dire trattenere. Per sempre. Un Alto Adige che all’incerto preferisce sempre il certo e che considera un imprevedibile e pericoloso salto nel buio anche lo spostamento di un millimetro.

Poi c’è un Alto Adige urbano: italiano nei modi, nelle abitudini e dunque anche nel voto e nelle paure. Perfettamente in linea con ogni tendenza e dunque con ciò che accade nel resto del Paese. Sempre pronto a cavalcare il cambiamento. Disposto a cambiare in fretta idea e anche a tornare indietro, quando serve. Ma c’è anche un Alto Adige traversale, imprevedibile, un po’ italiano e un po’ tedesco, un po’ di destra e un po’ di sinistra: quello che Salvini lo votiamo anche se siamo tedeschi; quello che Köllensperger lo votiamo anche se siamo italiani; quello che nessun sondaggista e nessun analista riesce ad intercettare, a leggere, a capire. Insieme moderno e antico, reazionario e rivoluzionario, eterno cercatore di vento in un mare indefinito. Ed è con questo Alto Adige dalle mille facce che dovrà cercare di dialogare, da oggi, il “nuovo” Trentino.













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