L'ALPINISTA

Nives Meroi: "La montagna non può essere sempre un luna park"

Parla la scalatrice friulana con 13 ottomila all'attivo:"Dobbiamo chiederci che modello di sviluppo vogliamo"


Antonella Mattioli


BOLZANO «Sinceramente non so quale sia la soluzione, ma è arrivato il momento di chiedersi che modello di sviluppo per la montagna vogliamo per evitare che sia sempre più un grande luna park: per nulla diverso dalla città». Nives Meroi, 54 anni - fortissima alpinista friulana con all’attivo tredici Ottomila, l’ultimo, il Makalu, conquistato a maggio sempre assieme al compagno di vita e di cordata Romano Benet - dal silenzio di Fusine Laghi, poche case immerse nel silenzio del bosco al confine con Austria e Slovenia, guarda con una certa preoccupazione al carosello di auto, moto, camper, pullman che, nei mesi estivi, porta rumore e caos sui passi dolomitici. «Le Dolomiti e le imprese compiute dai pionieri dell’alpinismo le leggevo da ragazza sui libri: sognavo il giorno in cui avrei potuto permettermi di andarci. Io ho cominciato a scalare sulle Alpi Giulie, per il semplice fatto che erano vicine. Poi, quando sono arrivati i primi soldi, ricordo ancora le trasferte sulla mitica Fiat 126, per scalare le cime più famose. Sono passati 25-30 anni da allora, ma è cambiato il mondo».

Non solo lì.

«Non sono contro le tecnologie, anzi. Solo che bisognerà prima o poi trovare un po’ di equilibrio. Ormai anche ai campi base dell’Himalaya sono tutti connessi 24 ore su 24: impegnati a postare report e foto più che ad apprezzare il momento che stanno vivendo. Si corre sempre più veloce: sui tornanti dei passi dolomitici come sugli Ottomila. È tutta una corsa».

Il primo Ottomila?

«Nel 1994, il K2 dal versante Nord. Siamo rimasti via complessivamente per tre mesi, nei quali non sapevamo neppure se il nostro mondo esisteva ancora. Anche oggi cerchiamo di andare in montagna con lo spirito di allora: partiamo ed evitiamo di raccontare secondo per secondo quello che facciamo. La nostra esperienza vogliamo godercela appieno in maniera lenta. Per questo non siamo di moda».

Cosa pensa dell’ipotesi, che torna periodicamente alla ribalta, di introdurre un ticket sui passi?

«Lo trovo discriminatorio, perché consente di andarci solo a quelli che hanno i soldi e magari pretendono di raggiungere il rifugio al volante di un Suv».

E bloccare come propone oggi più d’uno, nell’ambito della nostra campagna dedicata allo sviluppo sostenibile del turismo nelle Dolomiti, il traffico veicolare in certe fasce orarie?

«Certo, detta così potrebbe essere una bella cosa, perché in questo modo eviterebbe a chi come noi scala, di essere su una vetta e sentire il rumore assordante delle moto che sfrecciano sui passi. Però non so se sia attuabile, anche perché le strade dei passi collegano una vallata all’altra e quindi c’è chi le utilizza non solo per farsi un selfie vicino al cartello che indica il passo, ma anche per lavoro».

E quindi?

«E quindi dico che serve un cambio di passo che è culturale, più che caratterizzato dai divieti».

Non è facile però.

«Certo che non è facile, ma siamo anche noi montanari che abbiamo incentivato un certo tipo di turismo che come l’alpinismo è figlio del nostro tempo. Bisogna educare le persone, a partire ovviamente dai bambini, che in montagna ci si arriva meglio a piedi o in bici, piuttosto che in macchina».

Però è più faticoso.

«Su questo non c’è dubbio, ma è più bello. Solo se noi andiamo al ritmo del passo, possiamo apprezzare davvero quello che ci circonda e vedere i particolari. Altrimenti tutto scorre velocemente, non ci rimane niente. Se non qualche scatto da postare, ovviamente in tempo reale, su facebook».

Quando lei e Romano chiuderete il conto con gli Ottomila, scalando anche l’Annapurna, l’ultima vetta che manca al vostro prestigioso palmarès?

«Per il momento ci godiamo il piacere di essere tornati a casa dopo l’ultima spedizione sul Makalu, poi vedremo. Non ci poniamo in questo momento troppi obiettivi: tutto dipende da come staremo e quando riusciremo ad avere i soldi per finanziare una nuova spedizione. Io e Romano pensiamo che il ritmo lento consente di assaporare di più le cose».













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