Faganello, quegli scatti diventati storia

Sono passati dieci anni dalla scomparsa del grande fotografo trentino. Sapeva intuire l’anima delle cose


di Giorgio Dal Bosco


TRENTO. Se Flavio Faganello fosse ancora vivo e non se ne fosse andato a 72 anni, portato via l’1 ottobre di dieci anni fa da una malattia sopportata con grande rigore morale e coraggio, non sapremmo come, oggi, valuterebbe la fotografia attuale, i suoi meccanismi digitali, i colleghi fotografi. Non sapremmo come commenterebbe, e vorremmo proprio saperlo, quella foto del bambino siriano morto annegato che ha sconvolto tutto il mondo, tranne quelli dell'Isis. Alcuni di questi interrogativi sono pertinenti ed altri, invece, come quello sui colleghi fotografi, sono di scarsa importanza perché comunque con i colleghi ben raramente si è confrontato. Con i giornalisti e scrittori, con quelli sì che talvolta ha polemizzato quando accusavano o accusano il fotografo di essere “invadente” sullo scritto, “non convincendosi che le due espressioni, quella scritta e quella fotografata devono coesistere ed integrarsi.” Semmai, di colleghi, ne ha avuti come allievi. Ma nel caso di Flavio Faganello hai voglia di parlare di allievi! Ad essi avrà insegnato la tecnica di ripresa e di camera oscura ma non avrà mai potuto insegnare la sensibilità “storico-umana” che l'ha sempre contraddistinto facendone un unicum professionale ed artistico (se mai la fotografia può assurgere ad arte) nel panorama trentino.

Quella sensibilità o la si ha o non la si ha. La sua era una sorta di vocazione, una intelligenza della realtà che andava al di là della sua oggettività. Nei cinquanta e più anni di attività ha avuto uno spiccato senso storico della cronaca. Storia e cronaca sono concetti che tendono ad elidersi a vicenda e Flavio, della cronaca, ha saputo sempre fotografare quello che sarebbe rimasto nella memoria del tempo e quindi ciò che sarebbe diventato storia. Ne è prova il lavoro quotidiano dei giornalisti quand'esso deve recuperare immagini particolarmente significative del passato, non mere foto documentali. Allora è stato ed è tuttora giocoforza ricordare se e quando Faganello aveva fotografato quella tal situazione o quel tal personaggio. Ma non solo in lui c'era quella capacità di “intuire” l'anima delle cose che un giorno o l'altro sarebbe riemersa nella nostra vita o di quella dei nostri figli. Era capace altresì di catturare dalla realtà, interpretata con la fotografia, quelle emozioni ad essa realtà insite che lui provava con largo anticipo rispetto ad altri, altri che magari non provavano o non riuscivano a “mettere a fuoco”. Con il mozzicone di toscanello perennemente in bocca che roteava tra le labbra, guardando ora una serie di diapositive sul piano luminoso ed ora compulsando nervosamente pacchi di stampe, un giorno ci disse: “Tutti noi dovremmo stare più attenti a ciò che cambia nel nostro mondo. Come fotografo lo devo e lo voglio fare per documentare il passato che resiste sempre più debolmente e il presente che sempre più vorticosamente cambia. La foto, sai, è puramente comunicativa. Può far piangere e può far ridere. Anzi, no. Io, di foto commoventi, ne ho fatte tante. Mai, però, ho scattato foto che fanno ridere il fruitore. Questa è una mia lacuna e un sogno nel cassetto, se mai riuscirò a realizzare.”

Non amava parlare del suo passato se non per ricordare quegli aneddoti, incarichi o rinunce che sono stati i pilastri o le medaglie della sua crescita professionale. I primi servizi da fotoreporter furono per il Gazzettino di Trento (caporedattore Gino Susat, morto 31 anni fa a 80 anni, il più temuto dei giornalisti dell'immediato dopoguerra). “Rinunciai – ci confidò – al posto in Rai e ciò perché ho sempre sofferto di indipendenza, figlia di quella cosa meravigliosa che è la libertà”. Ecco, una delle regole cui si è costantemente mantenuto – parole sue – “pur con qualche scivolone” è stato il principio di “cercare di non essere sciacalli, come può avvenire con la cronaca nera.” Ci ricordò le foto scattate alla prima tragedia del Cermis, foto scattate con il pollice che “mi tremava a causa della scena agghiacciante che mi si presentava”. Per la ancor più terribile tragedia di Stava, vinse invece la sensazione di essere uno sciacallo e il giorno dopo aver sottoscritto un contratto con un editore tedesco rinunciò. Non rinunciò a documentare, invece, - ma qui la causa scatenante della tragedia non fu, come a Stava, la superficialità umana, bensì Giove Pluvio – l'alluvione del 1966 che ci mise in ginocchio. Servì, eccome, a dimostrare a “Roma” che anche Trento e non solo Firenze era andata a mollo.

Non è giusto - sarebbe oltretutto parziale – commemorare la sua figura a dieci anni dalla scomparsa rivedendo mentalmente soltanto le sue classiche fotografie-ritratto dei vecchi contadini con la pipa o delle vecchiette ingobbite sotto il peso delle gerle colme di legna da ardere mentre salgono i ripidi prati delle nostre montagne, quelle degli spaventapasseri o di certi barboni di città. Rifacendoci alla sua capacità di interpretare con anticipo gli sviluppi della società è più giusto menzionare foto che molti probabilmente non ricordano (o non hanno mai visto) e che - anche questa fu una sua confidenza – non piacquero al potere politico. Ci raccontò: “Cento diapositive del 1970 documentavano gli effetti devastanti sulla popolazione di certe sostanze in uso in agricoltura e industria. Con Adriano Morelli avremmo voluto proiettarle nelle scuole. Ce lo consentirono, ma mi censurarono due foto. Fui in qualche misura un antesignano degli ecologisti”.













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