Chernobyl 25 anni dopo, ritorno nel dolore / Foto

In viaggio con Tymofiy Spychak nel deserto dei suoi ricordi più cari


Alessandro Zanon


TRENTO. "Il giorno dopo di quel maledetto 26 aprile di 25 anni fa, stavo tornando a casa, qui, nel paese di Chernobyl. Avevo appena smontato dal turno di lavoro. Facevo l'autista e portavo avanti e indietro tecnici e funzionari che lavoravano nella grande centrale Vladimir Ilic Lenin". Lo sguardo ceruleo di Tymofiy Spychak, un signore di sessant'anni dall'aria altera, si perde nel vuoto, come a rincorrere i ricordi. In piedi, in quello che un tempo doveva essere un variopinto giardino e oggi è un selvaggio intrico di rami, evoca con sofferenza le ore che gli hanno segnato la vita. Oggi, dopo tanto tempo, è tornato in quella amata casa. Facendosi strada tra un groviglio di cespugli, raggiunge l'ingresso di ciò che resta di una piccola dimora in legno. Dalla soglia getta uno sguardo mesto a quei muri che un quarto di secolo fa attendevano di essere pitturati con l'aiuto dell'amata moglie Liuba e mentre la figlioletta Hanna di cinque anni giocava con le sue bambole.

«Ero in macchina, a soli pochi minuti da qui, da casa, e vedevo i rossi bagliori dell'incendio e scorgevo la nuvola di vapore e fumo alzarsi dal reattore numero 4 della centrale. Con un occhio alla strada e l'altro alla sagoma squartata giunsi su un ponte dove incontrai mia sorella: passeggiava con la figlioletta neonata nella sua carrozzina per far addormentare la piccola. Scesi dall'auto e restammo entrambi a guardare quel sinistro spettacolo appoggiati al parapetto. Non comprendevamo. E dunque, no, non avevamo paura». L'uomo entra nel rudere che fu casa sua.

«Ecco, qua c'era la cucina: che profumi! Poi da questa parte... Su venite! - ci esorta - Da questa parte c'era il soggiorno: piccolo ma accogliente. L'avevo costruita io questa casa, con le mie mani».

Tymofiy ha continuato a lavorare nella centrale maledetta fino a quando, l'anno scorso, è andato in pensione. Nelle ore, anzi nei giorni seguenti l'incidente che ha posto fine a quello che doveva essere l'eccelso emblema dell'era atomica sovietica, egli è stato tra coloro che hanno collaborato con le autorità nella gestione dell'evacuazione di tutti nel raggio prima di dieci e poi fino a trenta chilometri dal reattore esploso. Pure lui e la sua famigliola hanno dovuto abbandonare la casa di Chernobyl. È stata la sorte di tutti gli abitanti del paese che diede il nome all'impianto nucleare, così come per i cittadini di Pripyat, la città sorta per ospitare i quasi ventimila operai, tecnici e addetti che lavoravano nel plant e le loro famiglie. La città fondata nel 1970 e morta negli ultimi giorni d'aprile del 1986. "Le autorità ci hanno dato dei contributi, non molti a dire il vero, e con quell'aiuto e rimboccandomi le maniche ancora una volta, ho costruito una casa nuova a Pyrohovychi, vicino a Ivankiv. Qualcosa ho recuperato da questo edificio, ma la maggior parte delle cose, mobili, servizi, infissi sono stati saccheggiati."

Ancora oggi ci sono delle persone che vivono o arrotondano i loro magri guadagni con questa attività: recuperano soprattutto i metalli e li rivendono. Ludmilla Anatolijvna Lelijak, direttrice del Centro provinciale dell'Occupazione, ci ha detto che il problema sociale più acuto nella provincia di Ivankiv è proprio la disoccupazione. Il tasso medio si aggira attorno al 20%, ma nella fascia d'età compresa tra i 16 e i 25 anni si tocca una cifra superiore al 40%. Il comparto che ancora offre il maggior numero di impiegati è proprio la centrale. Sono circa 6000 le persone che vi lavorano con varie mansioni, anche se ci sono voci che ventilano un ridimensionamento attorno alle 3000 unità. A dare sollievo dovrebbero intervenire i mastodontici lavori per la costruzione di un nuovo mega sarcofago per contenere il reattore 4 e l'involucro costruito all'indomani della tragedia e che è segnato da crepe. Tymofiy ci sorprende quando ci racconta come prima di costruire una nuova casa avesse chiesto al Direttore generale della centrale di poter tornare a vivere con la famiglia nella sua abitazione. "Mi fu negato perché all'epoca lavoravo solo io nell'impianto".

Oggi ci lavorano anche sua moglie e sua figlia (per 980 Grivny, circa 90 al mese). "Per lungo tempo e alle volte ancora adesso, mi viene da pensare che tutto sommato saremmo potuti rimanere a vivere qui che il pericolo dovuto alle radiazioni non è poi tanto di più che a Kiev". Sono in molti a pensarla così. Nel nostro esplorare con Tymofiy l'intorno della centrale, all'interno della Zona di Esclusione, abbiamo incontrato tante persone che vi vivono. Per lo più sono anziani, ma non solo. Alcuni di questi abitanti li abbiamo avvicinati per capire cosa ci facessero in uno dei posti più inquinati al mondo. Alcuni hanno risposto che la zona più pericolosa è solo quella dopo il fiume Zdvizh, insomma dopo il secondo dei tre checkpoint che segnano le tre fasce di diverso grado di pericolosità del fallout radioattivo. Sarà, ma il nostro apparecchio rilevatore segnava praticamente sempre una presenza di radionuclidi superiore ai 12 nanosievert, limite massimo per l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Saliamo sul tetto del palazzo più alto di Pripyat. Lo sguardo vaga a 360º. Di là, a sud, a quattro chilometri, uno sputo, il sarcofago della morte. Tutt'attorno un mare piatto di verde, le rigogliose e interminabili foreste che stanno invadendo strade e cortili. Dall'alto di quel tetto si indovina anche là dove il fiume Dnepr si allarga fino a formare il cosiddetto Mare di Kiev e sulle cui rive fu edificata la centrale, mentre oggi sulla Riviera, come sono state ribattezzate le sue coste, sorgono le lussuose ville dei nuovi ricchi ucraini. In quella direzione ci rechiamo, là dove sorge Pyrohovychi e dove Tymofiy venticinque anni fa ripartì da capo e ricostruì una nuova casa. È bella, accogliente e con un bel giardino dove dondola un'altalena. È uno dei giochi preferiti di nonno Tymofiy e di Tymofiy junior, il nipotino.

Il piccolo è la nuova ragione di vita di Tymofiy. Tymofiy junior ha quattro anni e a detta dei medici è affetto da una patologia congenita riconducibile alle radiazioni: il suo corpicino cresce lentamente causandogli problemi al sistema respiratorio e impedendogli di camminare autonomamente. Il piccolo Tymofiy è figlio di quella bambina, Hanna, che la sera del 26 aprile 1986 aspettava papà giocando con le bambole. Il papà di Tymofiy junior se n'è andato quando ha scoperto delle malformazioni congenite del nascituro. Ma il piccolo ha il suo nonno. È lui che gli ha costruito una specie di girello per poter muovere qualche passo. È lui che lo accompagna ovunque per interpellare i migliori specialisti e che si sta adoperando per riuscire a portarlo in occidente, alla ricerca di un luminare.

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