Montagna / Intervista

Mauro Corona: “Per sopravvivere bisogna crearsi una corazza"

Parla il noto scrittore che domani, domenica 5 maggio, con il nuovo libro “Le altalene” sarà fra i protagonisti della serata di chiusura del Trento Film Festival. In scena all’auditorium Santa Chiara anche Fausto De Stefani e gli alpinisti di Dolomiti Open, affiancati dal coro della Sosat

di Fabio De Santi

TRENTO. Sono Mauro Corona, Fausto De Stefani, gli alpinisti di Dolomiti Open e il coro della Sosat, i protagonisti della serata di chiusura del Trento Film Festival, condotta da Maria Concetta Mattei e prevista per domenica 5 maggio alle 20.30 all’Auditorium S. Chiara. Due eventi consecutivi sotto la sigla di “In cordata per la solidarietà” con celebri nomi dell’alpinismo e delle terre alte che si avvicenderanno per raccontare i profondi messaggi della montagna e sostenere il progetto di solidarietà della Rarahil School in Nepal, ideata da Fausto De Stefani che inizialmente parlerà di “Epos. L’epica della montagna e i suoi valori”.

Intorno alle 21.30 sarà Mauro Corona in un dialogo con Simone Marchi a raccontare il suo ultimo libro “Le altalene” uscito per Mondadori. Ne abbiamo parlato con lo scrittore che ha superato le 73 primavere.

Mauro Corona, vorrei incominciare da una sua dichiarazione sulla sua ultima fatica letteraria: “Questo libro è il mio testamento. Rischiavo di morire frainteso”,

“Voglio intendere che per sopravvivere, non dico totalmente ma a malapena, bisogna crearsi una corazza che in molti casi non ti corrisponde ma serve a vivere in rapporto con gli altri. Dopo 74 anni di questo non essere io ma di adattarmi a tutti e anche a me stesso, ho recitato insomma la parte del duro, del coraggioso che non sono, mi sono chiesto quanto mi restasse da vivere. Così ho deciso che dovevo rivelare chi sono, anche se non interessa a nessuno, ma a me stesso, ai miei amici, ai miei familiari e ai miei figli dovevo dirlo perchè ho recitato anche con loro, perché morire frainteso e sentirsi dire dopo morto che ero uno poco di buono non mi andava bene”.

Quindi pensa di aver fatto chiarezza?

“In queste pagine ho voluto dire cose anche molto dolorose. Non l’ho scritto in prima persona, perché credo sia osceno scrivere un’autobiografia in prima persona, solo Gabriel Garcia Marquez si è salvato a malapena. Quando scrivi un’autobiografia o ti fai a pezzi o fallisci prima di partire, quindi l’ho fatta scrivere a un presunto altro.  E’ un libro a cui sono particolarmente affezionato perché non avevo mai detto e provato a raccontare certe cose, ha fatto bene a me stesso scriverle e raccontarle ”.

Perché “Le altalene”?

“La metafora dell’altalena mi piace molto perché la vita, non quella fisica che quando va non torna più, va e viene, c’è questo andare e tornare delle cose, degli accadimenti, dei fatti. Quando l’altalena si avvicina vedi cosa porta, cosa c’è sul seggiolino ma, quando si allontana per un po’, pensi che sei un po’ lontano da quel pensiero, da quel dolore e invece l’altalena torna e ti riporta le cose. Solo quando muoiono amici e familiari il seggiolino torna vuoto perché vanno via sull’altalena e non te li riporta più”.

Nei suoi occhi un papà violento che spesso picchiava la mamma che poi ha abbandonato lei e i suoi fratelli si può perdonare?

“Il perdono non è quello politico che si fa per finta. Non lo scegli, è un qualcosa dentro di te, una specie di rimpianto, di rimorso, anche di sensi di colpa che ti dicono che vale la pena farlo. Ho sempre perdonato i miei genitori, anche quando mio padre mi legava a un albero e mi picchiava con la cinghia. Ma dimenticare, no perché significa non spiegare agli altri cosa è successo e così non migliora niente e nessuno. Ecco il senso di perdonare e non dimenticare. Guardando il mondo di oggi, per fare un esempio, dove Cristo predicava la fratellanza sono 2.000 anni che si uccidono perché non riescono a perdonarsi e a farsi posto l’un l’altro”.

Poi c’è la strage della diga del Vajont, con quei 2000 morti, tra cui tanti bambini, quando lei aveva solo tredici anni.

“In questo libro ho cercato di starne fuori perché a volte è ricordato inopportunamente da gente che non ha nulla a che fare col Vajont. L’ho dovuto inserire perché ha segnato la mia infanzia e adolescenza, ma con distacco, non perché non mi ha dato dolore, ma perché ci sono i “professionisti” del Vajont e volevo starne un po’ fuori, defilato. Sapevano che si apriva questa falda mezzo metro al giorno, dovevano far evacuare i paesi: il Vajont è tutto qui, in questo silenzio. Enel non avrebbe mai comprato se avesse saputo delle evacuazioni, si sarebbe insospettita. Questa è l’infamia e la vigliaccheria: esser stati zitti e non aver fatto evacuare, l’ho sempre detto”.

Domani lei sarà al Trento Film Festival: quale rapporto ha con questa rassegna?

“Questo festival per me non è una manifestazione di film ma è una cosa del cuore. Innanzitutto sono nato in Trentino a Baselga di Pinè, poi il festival ha più o meno la mia età. Andavo a Trento in autostop quando avevo 15 anni e da allora non ne ho perso quasi nessuno: vedevo i film, conoscevo i miei miti, i più grandi alpinisti di tutto il mondo come Messner e Bonatti e non mi pareva vero di potergli stringere la mano, di viverli così da vicino. Per me anche oggi il festival è un pellegrinaggio nella memoria e nel cuore. Certo non è più come allora ma non è che l’abbiano “devastato”, hanno creato un altro festival mentre io ho nostalgia di quello di allora. Nostalgia del tendone, dei buoni per mangiare che ci davano e che regalavo a Marcello, un senzatetto. Per me è questo il festival: una cosa di cuore, di memoria, di ricordi, di alpinisti che non ci sono più”.

Quale è oggi la sua visione della montagna?

“Noi vecchi alpinisti non possiamo pretendere che sia tutto come quarant’anni fa, non dobbiamo puntare il dito contro l’alpinismo di oggi perché oggi è una montagna diversa e a me va bene, basta che sia preservata. Oggi ci sono ragazzi che fanno cinque salite di estremo grado al giorno e non è giusto chiamarli i “superatori” solo per invidia o perché ci si crede i detentori del sapere di come si va in montagna. In una poesia Giacomo Noventa scriveva “Così che alla fine io non starò, con gli altri vecchi intorno al fuoco, così che alla fine io non starò a dire Noialtri” perchè aveva già capito questo atteggiamento, invece i ragazzi vivono la montagna come il tempo gliela propone, purché sia rispettata, va tutto bene”.

Cosa le manca di più delle scalate di un tempo?

“In montagna ci vado ancora, ci sono andato anche ieri anche se naturalmente non faccio più certi gradi. Bisogna anche accettare l’età che passa. Io mi dico sempre che si riparte ogni mattina. Non posso vivere di ricordi di quando ero forte ma ringrazio Dio ogni mattina che posso andare ad arrampicare ancora quarti o quinti gradi e mi diverte sempre. Ho avuto fortuna ad essere ancora qui a differenza di altri che purtroppo non ci sono più. Allora usiamola quella fortuna per continuare a fare le cose che ci piacciono”.

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