Nel profondo del suono con il maestro Terry Riley 

Dopodomani il concerto a Trento. Il compositore americano “padre” del minimalismo sarà al Teatro Sanbàpolis assieme al figlio Gyan in un set per tastiere e chitarra elettrica


Paolo Morando


Trento. Ai più, il nome di Terry riley non dirà nulla. replicate allora spiegando che prima di philip glass c’era (c’è) terry riley: e allora forse qualcosa scatterà. ma non ancora abbastanza. perché la rilevanza nella storia della musica contemporanea di questo compositore americano, californiano di colfax, è immensa. del “sacro quartetto” del minimalismo è il più anziano, classe 1935 come la monte young ma nato quattro mesi prima, mentre steve reich è del 1936 e philip glass del 1937: e anche l’anagrafe qualcosa vorrà dire. dopodomani, Venerdì 19 aprile, sarà incredibilmente A trento, Alle 21 al teatro sanbàpolis Di via della malpensada 82, per la rassegna “transiti” del centro san chiara. per giunta con biglietto ad appena 10 euro. non sarà solo: da tempo infatti percorre le vie musicali del mondo assieme al figlio gyan, in un set per tastiere e chitarra elettrica che, per prepararvi all’evento, potete anche facilmente ascoltare (e vedere) su youtube. scoprendo magari, ed è la magia di percorsi musicali irripetibili che s’incrociano a distanza di decenni, atmosfere che in certi passaggi sembrano venire direttamente dai popol vuh di “hosianna mantra”, con le sei corde di riley junior e lo steinway & sons del padre a ripercorrere sentieri aperti (nella fredda germania dei primi anni ’70, ma via oriente!) da florian fricke e daniel fichelscher.

Dalla California all’India

Non è un caso che si citi l’Oriente, con i suoi vapori mistici. Dopo il diploma in composizione a Berkeley nel 1961 e le epocali “In C” e “A Rainbow in Curved Air”, che negli anni ’60 (al netto delle esperienze radicali e aleatorie di La Monte Young) segnano la nascita del minimalismo, a inizi anni ’70 Riley diviene infatti allievo di Pandit Pran Nath, studia i raga indiani, incrocia l’elettronica con strumenti tradizionali di là come sitar e tabla. Ed è una lezione che negli anni ’70, dopo la toccata e fuga nel rock più di frontiera (“Church of Anthrax” con John Cale fresco di Velvet Underground, ma anche gli Who di “Baba O’Riley” gli sono debitori) trasfonde in altri album leggendari come il doppio “Persian Surgery Dervishes”, “Descending Moonshine Dervishes” e “Shri Camel”. Ma la sua è una discografia interminabile, che regala gemme fino ai giorni nostri: sia che si tratti di vecchi nastri ripescati da chissà dove, sia che riguardi concerti più vicini nel tempo. E poi tante colonne sonore, anche qui fin dagli anni ’70 (magari di film oscuri come “Happy Ending” e “Lifespan”), riletture o nuove esecuzioni di “In C”, ormai un classico eseguito in tutto il mondo da grandi orchestre come da scuole musicali, e ancora opere commissionate addirittura dalla Nasa, collaborazioni le più svariate (anche con il contrabbassista italiano Stefano Scodanibbio) e tanto altro. Perché Riley, a dispetto degli 84 anni a giugno, non perde un colpo. Al punto di essersi scoperto “social”, lui che per anni lo si è immaginato rinchiuso in uno scantinato o in un garage, circondato di tastiere di ogni tipo e soprattutto di apparecchi elettronici, impegnato in pionieristici “loop” quando nessuno ne aveva ancora immaginato (e men che meno esplorato) le potenzialità. Basta dare un’occhiata in Facebook, dove il nostro ha un profilo attivissimo. E in cui capita anche di trovarlo condividere il post del Teatro Sanbàpolis con addirittura un bel “Thanks!” a commento.

L’elemento ancestrale

Avrà tanti difetti, Wikipedia, ma non sbaglia nel citare questa sua frase: «Quando ascolti rigorosamente un pattern che è ripreso continuamente, esso ad un certo punto incomincia a subire una sorta di cambiamento sottile, perché nel frattempo sei tu che stai cambiando». Il che ben definisce la visione della musica (meglio: del suono) nella filosofia di Terry Riley: un qualcosa che ci compenetra e che fa parte di noi, elemento profondo e ancestrale che non conosciamo fino in fondo nella sua essenza, ma che forse è possibile finalmente scoprire distillandone le unità irriducibili. Replicandole e rimontandole in un cerchio infinito, in ascetica trance. Ma non pensate a un esercizio di ipnosi, perché “In C” e “A Rainbow in Curved Air” sono lì a dimostrarlo, immortali: con i loro squarci di prepotente bellezza che improvvisi si aprono, per poi chiudersi e riaprirsi ancora. Senza mai finire e ritrovandoci ogni volta, appunto, diversi. Una lezione che è prima di tutto spirituale: e che cosa si può chiedere di più, oggi, alla musica?

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