Una vita per gli altri ad inseguire il bene

Sacerdote dal 1947, andò a Bolzano nell’ex lager e poi tornò a Vezzano A San Pietro aprì una nuova fase, poi nel 1979 fondò il Punto d’Incontro


di Mauro Lando


TRENTO. Amava raccontare di essere nato in una camera d’albergo, lo scrisse anche della sua biografia “La mia strada” (edizioni il Margine), a significare che era abituato a spostarsi, a vagabondare, ad andare dove lo portava il cuore. Non in senso melodrammaticamente letterario, ma in senso spirituale. Don Dante Clauser era nato il 7 dicembre 1923 a Lavarone in una camera di albergo dove la sua famiglia abitava. Il padre Luigi era dipendente provinciale colà comandato a sorvegliare i lavori di costruzione dell’acquedotto. Diventato sacerdote nel 1947, dopo una breve parentesi come cappellano a Calavino, già nel 1948 fu mandato a Levico a dirigere la neonata Piccola Opera Divina Misericordia. Allora vi si ospitavano non solo bambini senza genitori, ma anche ragazzi più grandi, taluno magari con qualche guaio con la giustizia. Fu quell’esperienza una sorta di battesimo per il giovane prete che poté così conoscere concretamente i problemi degli “ultimi”. Due anni dopo era a Bolzano e per casa aveva una cella dell’ex campo di concentramento di via Resia dove erano ancora leggibili sui muri i segni delle atrocità naziste. Non era solo perché come vicini aveva famiglie senza casa che in quelle celle trovavano un riparo. Ai limiti di quel campo creò la “Casa del Fanciullo” per ragazzini in difficoltà. Successivamente divenne parroco a Vignola, a Vezzano, spostandosi poi verso una parentesi romana come assistente nazionale degli scout. Fu quando tornò a Trento nel marzo 1964 che diede il segno della sua forza. Diventato parroco della Parrocchia di San Pietro la resse fino al 1977 in anni di povertà nelle aree del centro storico, di revisione della devozione verso il “santo” Simonino, di fervore postconciliare, di movimentismo del 1968 e di grandi manifestazioni sindacali. Il clima ecclesiale di quegli anni nella parrocchia di don Dante è stato certo irripetibile soprattutto per il ruolo che egli consentì che i laici avessero. Non per nulla proprio a San Pietro nacque nel 1969 il primo Comitato di quartiere della città. Insomma, seppe muovere coscienze, ma anche far sorgere contestazioni. Basti ricordare che don Dante consegnava settimanalmente all’arcivescovo Gottardi il testo della sua predica domenicale perché poi il presule potesse confrontarlo con le proteste che gli pervenivano. Era anche la stagione delle manifestazioni più dure soprattutto dopo i fatti del 30 luglio 1970 all’Ignis. Don Dante nella sua autobiografia racconta che “più volte, assieme a padre Angelico Kessler, fuggimmo per i vicoli per evitare le manganellate dei poliziotti che pestavano senza guardar in faccia nessuno”.

Dopo tanti anni di impegno, nel maggio 1977 arrivò il momento della scelta dell’addio alla parrocchia, accompagnato da tante dicerie, tra cui quella del “siluramento” voluto dall’arcivescovo. Fu il professor Paolo Prodi, rettore dell’Università e fedele partecipante alla messa domenicale a San Pietro, a cercare di fare chiarezza. Scrisse sui giornali che la scelta di don Dante non andava immiserita in polemiche, ma andava interpretata come “un passo avanti di un sacerdote e della comunità in cui è inserito”. Il suo passo avanti fu lungo perché dalla “pastorale del dialogo” passò alla “pastorale della condivisione”.

Il 19 febbraio 1979 fondò con otto amici la cooperativa “Punto di incontro”, il luogo dove negli ultimi decenni don Dante Clauser ha nuovamente testimoniato la sua vicinanza agli ultimi. Alla neonata cooperativa il Comune concesse in comodato gratuito la casa di Via Travai 1: era in condizioni precarie, ma venne ristrutturata e in quei locali, con vecchi mobili regalati e senza finanziamenti, fu aperta una comunità formata da barboni senza dimora, e più tardi da minorenni affidati dal Tribunale. Nel 1983 tale comunità fu sciolta perché le forze a disposizione non erano in grado di reggerla. Si modificò il tipo di accoglienza proprio in un momento in cui la “vita sulla strada” cambiava. Sono infatti di quegli anni i primi arrivi degli immigrati che non sapevano dove rivolgersi per avere un pasto. Il “Punto di incontro” seppe, talvolta con fatica, reggere la pressione non più dei barboni di Trento, ma della crescente quantità di persone immigrate e quasi sempre sbandate. Don Dante fu il garante della crescita di questa oasi di solidarietà e, negli ultimi anni, quando il percorso del vivere gli era sempre più in salita, ne è rimasto sempre il “patriarca”. La città gli è stata quasi sempre vicina, soprattutto negli anni dell’esperienza di “Punto di incontro” e fu così che nel 1990 venne nominato “Trentino dell’anno” attraverso l’iniziativa della rivista “Uomo, città, territorio”. Quella fu l’occasione del pieno riconoscimento della pienezza della sua vita di sacerdote.

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