immigrazione

L’integrazione inizia da lavoro e sport

Sartoria, falegnameria, ciclofficina. Matteo dà lezioni di rugby. Alpha (Guinea) è volontario nella Cri e ora anche insegnante


di Christian Giacomozzi


TRENTO. Essere comunità è prendersi cura di ogni aspetto che la compone, conoscere, interagire, aprire porte, sfondare muri e andare verso l’altro. È questo lo spirito che ieri ha mosso l’iniziativa di incontro tra i richiedenti protezione internazionale della Residenza Fersina, in Via al Desert, attiva dal maggio 2016, e gli abitanti del territorio che li ospita. Una realtà che accoglie quasi 300 migranti e che vede coinvolti volontari, operatori, insegnati a costruire ponti e momenti di confronto per una piena inclusione di persone che raggiungono il nostro capoluogo dopo aver abbandonato tutto e tutti.

«Il carico emotivo è forte ma gestito molto bene», ha commentato Matteo Carbonaro, giocatore del Rugby Trento e giunto al termine di un’esperienza di servizio civile all’Atas, una delle associazioni attive nella struttura. «Qui dentro ho arricchito la mia visione del mondo dell’accoglienza, che rischia di rimanere segregato.

Lo sport è occasione perfetta per abbattere le barriere. Con il progetto Rugby for Peace i ragazzi della prima squadra di Trento allenano richiedenti asilo, che magari diventeranno nuovi giocatori. La lingua, potenziale ostacolo nel contatto con l’altro, è rimpiazzata da uno scambio più diretto, fisico. Ma gli ospiti della struttura, spesso, non hanno solo difficoltà linguistiche. «Molti sono analfabeti nella loro lingua madre», spiega Mirta Petrolli, dell’Associazione Fili che cura l’insegnamento dell’italiano nella residenza. «Il pregresso spesso non aiuta. Il progetto di accoglienza cerca di offrire occasioni di comunicazione reale, come le Conversazioni linguistiche, in cui le strutture grammaticali sono calate in situazione, oltre che impartire otto ore di lezione settimanali. La motivazione è molto forte, ma rischia, col tempo, di lasciare il posto a preoccupazioni crescenti, dettate dal futuro incerto, che non facilitano l’apprendimento». Se le difficoltà sono indubbiamente molte, esiste tuttavia un forte strato di competenze personali, testimoniate, nella giornata di ieri, da stand riservati ai prodotti dell’orto della struttura, ai laboratori di sartoria, falegnameria e alla ciclofficina, dalle quali si può partire per cercare di costruire persone che sappiano stare in piedi da sole, iniziando proprio dal bagaglio individuale. «Sono approdata al mondo dell’accoglienza perché sentivo mio l’argomento», racconta Francesca Righi, volontaria da poco più di un anno presso la struttura. «Ho iniziato con le conversazioni linguistiche, ma ho proposto anche diversi laboratori di musica. È importante esprimersi attraverso più codici, anche artistici. Gli ospiti hanno competenze, anche musicali, che è giusto valorizzare. Spesso ci si dimentica che qui vivono persone cariche di un loro vissuto, e molti parlano e giudicano senza aver mai incontrato l’altro. Qui si riesce a osservare uno spaccato più completo della società. Non tutto è semplice, ma anche questa realtà fa parte di Trento. Bisogna imparare ad ascoltare, senza paura».

Aprire le porte, dunque, è anche illuminare chiaro-scuri e dare contorni alle cose, chiamandole per nome. E uno dei nomi e dei volti che animano la residenza è anche quello di Alpha Kabinet Conde, della Guinea, che in un italiano sciolto, appreso in poco meno di un anno, ha voluto condividere la sua storia. «Nell’ottobre dell’anno scorso sono arrivato a Trento, dopo aver attraversato Guinea, Mali e Libia. Sono fuggito dal mio Paese a causa di una forte crisi politica ed etnica. Ho abbandonato il mio lavoro di contabile e responsabile alle risorse umane di un’azienda di trasporti. Ho lasciato la famiglia e gli amici. Ho perso tutto. In Italia mi sono trovato in mezzo a persone sconosciute. Ho provato paura e ho fatto fatica a dare fiducia agli altri. Ma sono riuscito a superare l’ostacolo». Su questa base è iniziata la sua risalita: «A Trento frequento la scuola. Gioco a basket. Canto nel coro “Bella Ciao”. Sono attivo nella Croce Rossa. Insegno ad altri stranieri. Ho raggiunto un 80% di fiducia». La strada è ben avviata, ma altri passi devono essere fatti: «Sulle prime ho percepito diffidenza. Ora è meno, ma è ancora molta. Avere paura è comprensibile ma non è normale. Siamo tutti uomini: cambia il colore della pelle, ma siamo tutti uguali. Confrontarsi con l’altro vuol dire entrare in contatto con altre idee, sempre comunque degne di essere conosciute. Giornate come questa non dovrebbero accadere solo una volta all’anno. Andrebbero assolutamente potenziate. Ma cerchiamo anche di portare il nostro mondo fuori. Ho preparato alcune lezioni sulla storia dell’Africa, che terrò alle medie di Gardolo e Cognola e al liceo Galilei». La scuola occasione di riscatto e inclusione: «È il luogo dove sono diventato quello che sono e dove posso costruire il mio futuro», conclude Kandioura, originario del Senegal, aspirante meccanico, che a Trento ha ottenuto il diploma di terza media.

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