Gli studenti tra i profughi di Lampedusa

Ventisette ragazzi del “da Vinci” e del “Bonporti” hanno incontrato chi ospita gli stranieri e giocato a pallone con loro


di Paolo Piffer


LAMPEDUSA. A Capo Ponente il cimitero dei barconi guarda il mare. Dentro gli scafi in legno, calzini, maglie e calzari sono ormai stracci putridi, corrosi dal salmastro e dal tempo. Plastiche e lattine cuociono al sole. Le “carrette” del mare non partono più dal nord Africa per arrivare direttamente a Lampedusa, la porta meridionale d’Europa che centinaia di migliaia di uomini, donne, bambini, cercano di attraversare da anni scappando da fame, desertificazione e guerre.

Dopo l’ecatombe del 3 ottobre del 2013 - 368 morti a poche centinaia di metri dalla banchina dell’isola - l’Italia istituì Mare Nostrum che poi, coinvolgendo diversi Paesi europei, si trasformò in Triton e adesso Frontex, presidio e controllo dei confini marini, salvataggio dei disperati davanti alle coste libiche, anche, ma, soprattutto, operazione di polizia e di identificazione dei migranti secondo una logica securitaria e di respingimento che le politiche europee perseguono, Italia compresa, più che di accoglienza.

Il 60% delle richieste di protezione internazionale è bocciato e il decreto Minniti/Orlando che cancella il grado d’appello non farà che aumentare la percentuale. “Inconsapevolmente – sottolinea Pietro Bartòlo, il medico dell’isola che in 26 anni ha curato 300mila sbarcati – abbiamo fatto un favore ai trafficanti. Ci usano. Mettono questi disgraziati a bordo di gommoni che costano poche decine di euro tanto sanno che a qualche decina di miglia dalla partenza qualcuno li raccoglierà, se ce la fanno. E così aumentano i naufragi e i morti. E’ una mattanza, un genocidio” (lo scorso anno si stima siano annegati in oltre 5000, ndr). Bartòlo è uno dei protagonisti di Fuocammare, il documentario di Gianfranco Rosi che ha vinto l’Orso d’oro a Berlino ed è stato candidato agli Oscar. Ha scritto “Lacrime di sale”, vera e propria autobiografia, che ora diventerà una fiction Rai diretta da Maurizio Zaccaro. Sergio Castellitto lo interpreterà.

Da Trento, nei giorni del “Premio Unesco per la Pace” al sindaco Giusi Nicolini, sono arrivati in mezzo al Mediterraneo in 27 diciassettenni, tra ragazze e ragazzi, la IV E del liceo scientifico “da Vinci” e i “colleghi” della sezione B del liceo musicale e coreutico “Bonporti”, guidati da un poker di prof, Chiara Bonvicini, Ilaria Pasqualini, Sandro Bertoni e Sandro Innocenti. Per cercare di capire, un viaggio di istruzione e formazione sulla rotta dei migranti, un progetto sostenuto dalla Piattaforma delle resistenze delle Province di Trento e Bolzano che prevede anche, a breve, la partenza per Roma di un’altra classe dell’istituto di via Madruzzo, con il prof Alberto Conci, dove incontrerà istituzioni e associazioni che si occupano del fenomeno.

Gli studenti improvvisano in spiaggia, alla Guitgia, una partita di calcio con alcuni africani che scendono in paese dall’hot spot nascosto in un vallone poco distante di quest’isola-pietraia dove la stagione turistica non è ancora iniziata e gli alberi sono ormai una rarità, risultato di un taglio selvaggio operato nei secoli scorsi. Lo stesso fanno nella centralissima via Roma, alzando un pallone da pallavolo. Lo sport può aiutare a comprendere.

Pietro Bartòlo mostra le foto di donne massacrate dalla “malattia dei barconi”. Ustioni gravissime di 3° e 4° grado causate dalla reazione chimica della miscela composta dal gasolio (con il quale si rabbocca il serbatoio durante la navigazione e inevitabilmente fuoriesce) e dall’acqua marina che impregna il fondo dei gommoni dove stanno le donne, spesso con i loro bambini. “Dobbiamo trattare queste persone come esseri umani – riflette il medico – Che schifo distinguere tra migranti economici e chi scappa dalle guerra”.

Lillo Maggiore lavora, da amministrativo, a scuola. Con la moglie Piera ospita a casa un ragazzo senegalese, Seydou. In passato la coppia ne ha accolti altri che ora sono in nord Europa e che, con i loro figli, tornano a trovare “i nonni di Lampedusa”. Ha conosciuto da poco Mohamed e Abulei, ivoriani, che mostrano i segni delle scudisciate e delle torture subite in Libia in quei veri e propri lager destinati a chi sta per partire. “Per noi sono come figli”, dicono.

Quella mattina presto del 3 ottobre 2013 ha cambiato la vita a Carmine Menna, l’ottico del paese, a sua moglie Rosaria e ai loro sei amici. Da non dormirci la notte, popolata d’incubi. Erano sulla barca di Vito Fiorino, a pescare e fare nottata. Si trovarono di fronte ad un inferno di braccia e occhi imploranti in un mare ancora scuro come pece. Ne salvarono 47, chiamarono i soccorsi. “Cercavamo di prenderli, ci scivolavano via, impregnati d’olio e gasolio com’erano, li perdevamo uno a uno, li vedevamo scendere giù e scomparire”, ricordano. Arrivò anche Costantino Baratta con la sua barca, il muratore. E la Guardia costiera. “Le ragazze partono dai loro Paesi anche se sanno che saranno tutte violentate – commenta Costantino – Se ne vanno perché dove vivono stanno male”.

“I migranti non sono un pericolo ma in pericolo. Ma l’Europa non capisce e contrasta il fenomeno”, afferma Paola di Mediterranean Hope, progetto di sostegno ai profughi promosso dalla Federazione delle Chiese evangeliche. “Ci vogliono i corridori umanitari per farli arrivare in sicurezza – rincara il parroco, don Carmelo La Magra – E invece, adesso, fanno i decreti flussi per i lavoratori, una mentalità coloniale, la nuova tratta degli schiavi”.

A Lampedusa, in frontiera, uomini e donne accolgono. Non sono eroi. Come capita anche altrove sono più avanti di tanta politica. Sono riusciti a rimanere umani.













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