IL RICORDO

Grande Torino, il mito e i valori di un'altra Italia

Settant'anni fa la strage di Superga. Ulisse Marzatico: "Fu come se ci avessero strappato il simbolo della forza, della giovinezza, dell’allegria"


di Carlo Martinelli


Ogni 4 maggio, immancabile, un ricordo personale dai significati particolari, ancora più a 70 anni da quel giorno del 1949, quando l’aereo che riportava da Lisbona  “la” squadra di calcio del Grande Torino, andò a schiantarsi contro la collina di Superga. Un ricordo che aiuta a spiegare perché mai il 4 maggio sia entrato nella memoria degli italiani, ben oltre lo sport, per non uscirne mai più.

E’ il ricordo di un uomo di cultura e di montagna, ambientalista e spirito critico, anche con il mondo del calcio che non sopportava. Un uomo che ha attraversato da protagonista la seconda metà del secolo scorso, in Trentino. Si chiamava Ulisse Marzatico e un giorno, nella libreria che aveva trasformato in una sorta di cenacolo socioculturale, sorprese chi scrive: “Ricordatelo sempre, il 4 maggio del 1949 é successo un qualcosa di così significativo che solo chi stava allora crescendo nell’Italia uscita distrutta dalla guerra, può tentare di raccontare”. Spiegò, in particolare, che l’emozione e il dolore per quella perdita collettiva - “non era una squadra  come le altre, era un mito e infatti divenne, dopo la tragedia, la squadra di tutti, anche di chi logicamente continuò a sostenere la formazione del cuore” - si materializzarono nel giorno dei funerali.

“Non si tratta soltanto del milione di persone che a Torino fecero ala al silenzioso corteo, con le bare dei 18 calciatori adagiate sui pianali di altrettanti camion, si tratta del silenzio solidale che sembrò avvolgere tutto e tutti. Era la sensazione di una perdita collettiva, come se ci avessero strappato il simbolo della forza, della giovinezza, dell’allegria”. Già, gli Invincibili erano stati battuti non su un verde campo di gioco, ma nella nebbia e nella pioggia che avvolgeva Torino. E quella formazione, da dire e da leggere tutta d’un fiato  - Bacigalupo  Ballarin Maroso Grezar Rigamonti Castigliano Menti  Loik  Gabetto  Mazzola Ossola - divenne la prima litania laica da mandare a memoria in un Paese uscito con le ossa rotte dalla guerra e che aveva voglia di facce pulite, di gente che faticava con il sorriso sulle labbra, di uno stare insieme che non dipendeva da paure, tessere o gerarchie ma dal fatto di essere uomini e donne, liberi. Il Grande Torino era questo. Non sembri eccessivo: l’emozione e  il dolore di quel 4 maggio 1949 sono quelli che l’Italia avrebbe sentito, laceranti, sulla sua fragile pelle, vent’anni dopo. Con una differenza: il 12 dicembre 1969, il giorno della bomba in piazza Fontana, il dolore non si accompagnava all’emozione, bensì alla paura. Infine: non è alla nostalgia che parla, oggi, il Grande Torino.  Inutile paragonare i volti di quei ragazzi (nel 1950 l’Italia sarebbe andata ai Mondiali con quella squadra) a quelli dei tatuati calciatori d’oggi. E’ alla memoria che ci si deve rivolgere. E allora, semmai, va considerato che i tifosi di allora oggi sono clienti. E che laddove era impensabile ipotizzare che il Grande Torino avesse una maglia diversa da quella granata, oggi è plausibile che ogni anno le squadre indossino una casacca diversa, immancabilmente più brutta della precedente. Avrebbero pensato, gli Invincibili, che 70 anni dopo la loro memoria avrebbe costretto la scalcagnata Italia ad interrogarsi  nientemeno che sui valori? 













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