Brasile? No, Jugoslavia



Maracanà di Rio, 18 luglio 1971, partita d’addio di Edson Arantes do Nascimento detto Pelé, 200mila tifosi sugli spalti. Finisce 2 a 2, ma non conta nulla il risultato. Conta la  festa l’amichevole tra Brasile e Jugoslavia per celebrare uno dei più grandi calciatori della storia (non chiedete a chi scrive di definirlo il più grande: non è possibile stante l’esistenza di Maradona e Di Stefano...).  A proposito: perché la Jugoslavia? Semplice. L’aveva voluto, fortissimamente, lo stesso Pelé. Scelse la nazionale che più si avvicinava al suo ideale di calcio. Forse ricordando anche un’altra partita simbolica. 6 novembre 1968, Brasile contro Resto del mondo per celebrare i 50 anni della federazione calcistica brasiliana. I carioca vincono 2 a 1. A fine partita Florian Albert, campione ungherese, Pallone d’Oro 1967, commenta: “Giocammo tutti molto bene, Amancio, Overath, Beckcopertinaenbauer, Marzolini ed io, ma eravamo in qualche modo tutti in debito di qualcosa rispetto ai brasiliani. L‘unico tra noi capace di conquistarli pienamente fu Dragan Dzajic”. Ovvero, un calciatore della (allora) Jugoslavia. Prende le mosse anche da qui il bel libro di Paolo Carelli il cui titolo sembra la sintesi di quanto finora raccontato: Il Brasile d‘Europa (Urbone publishing). Sottotitolo: il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità. Sì, ci dice Carelli - in un racconto denso, documentato, scheggia di una storia che sarebbe riduttivo circoscrivere ai soli campo di calcio - c’è stato un tempo in cui anche l’Europa aveva il suo Brasile. “Quella del calcio nella ex Jugoslavia - ci ricorda - è una vicenda che si è intrecciata con l’originalità politica, sociale e culturale di una nazione costruita sul delicato equilibrio di popoli eterogenei, attraversando il Novecento con i suoi traumi, utopie e contraddizioni”. Stella Rossa e Dinamo, Partizan e Hajiduk, calciatori sregolati e allenatori geniali: la vicenda del Brasile d’Europa è incisa con il fuoco nella carne viva del secolo breve.













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