Pugilato, ecco i primi pro trentini

Calavin e Thika gli atleti di punta di un movimento che ha voglia di crescere


Fausto Da Deppo


TRENTO. Francesco Calavin di Rovereto e Fabjan Thika di Trento saranno i primi pugili professionisti trentini. Sono in corso o in fase di avvio le pratiche per far loro compiere il salto dal dilettantismo, per farli diventare i volti da copertina di un movimento provinciale che presenta l'attività giovanile più significativa nel Triveneto e può contare, a Rovereto, su una palestra nuova.

E' alla Baldresca, ha un ring e una ventina di sacchi, una sala pesi e macchine multifunzioni. Con 25 anni di attività in curriculum, il Comune di Rovereto l'ha passata da settembre all'associazione pugilistica e il delegato provinciale F.P.I. di Trento M.d.L. Fiorenzo Parziani se la coccola, anche perché pure le due palestre a Trento e quella pronta ad Avio sono piene di giovani che vogliono indossare i guantoni. Il problema, al limite, è far capire che non tutti possono diventare campioni del mondo. «Molti ragazzi arrivano pensando di salire subito sul ring. Invece - spiega Parziani - c'è tanto lavoro da fare prima, c'è da far capire che la boxe non è fare a botte».

Già, uno dei pregiudizi con cui si scontra chi forma gli uomini del pugilato. E le donne, che, in numeri, iniziano a pesare anche in provincia: sono già oltre il 10% dei quasi duecento praticanti divisi fra le società Rovereto boxe e Trento boxe.  I pregiudizi, si diceva. «L'immagine del nostro sport più diffusa fra i non addetti è quella dei film alla Rocky, con sangue in abbondanza. O quella dei match di Tyson, conditi da una spettacolarizzazione eccessiva e da cifre che circolano solo ai massimi livelli Usa, magari pure da un morso all'orecchio... Di vero lì - sostiene Parziani - ci sono solo i sacrifici e la voglia di emergere. Elementi, questi sì, che fanno la storia del pugilato e aiutano la crescita del ragazzo, ne rafforzano il carattere e ne contengono l'aggressività. Altro che disciplina violenta: se in realtà particolari la boxe serve per recuperare ragazzi di strada, anche da noi è utile per limitare fenomeni come il bullismo».

Per questo, accoglie i piccolissimi. Lo spiega il tecnico Giuseppe Pavan: «Si entra in palestra a 6 anni, ma i contatti sono vietati fino ai 13. L'attività parte con percorsi e dimostrazioni di velocità e destrezza, salti con la corda. A 10-12 le rappresentazioni di pugilato, con colpi simulati. Le prime forme di combattimento, a 12-13 anni, non portano colpi, ma sviluppano strategie difensive (uscire dalle corde) e comportamenti formativi. Guantoni e caschetto si indossano dopo i 13 anni, in vista di incontri su 3 round da un minuto e mezzo l'uno».

In breve, alla forza esaltata nel professionismo, la boxe giovanile sostituisce il divertimento e quella dilettantistica l'abilità. «Per realizzare questo - continua Parziani - ci servono tecnici, ed ecco un corso che formerà 10 aspiranti». Per il resto, il messaggio cerca le parole giuste: «Il pugilato - riprende Parziani - non è tra gli sport più pericolosi: controlli medici, regolamenti, protezioni, articolazione in categorie permettono di ridurre al massimo i rischi. Si tratta di mettere la boxe nella giusta luce, quella di uno sport che rappresenta un'attività naturale, ideale da inquadrare a scuola».

L'agonismo arriva sulla scia di una formazione che tocca temi quali rispetto dell'avversario, controllo dell'alimentazione, lotta al doping. Così approdano al professionismo Calavin, medio massimo che ha raggiunto il limite d'età per i dilettanti (35 anni) e vuol proseguire «un'attività controllata», e Thika, che a 20 anni ha ambizioni di carriera nei superwelter. In attesa che sbocci Samuel Giacomoni, già protagonista di tornei nazionali e internazionali. Per le promesse ancora da scoprire, c'è il ring del trofeo di Rovereto, che da febbraio racconterà la 7ª edizione.













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