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Buffa arriva a Trento e con lui lo sport si trasforma in storia

Intervista allo storyteller di Sky che giovedì alle 18 sarà al cinema Vittoria per parlare di calcio, basket e delle Olimpiadi del 1936


Luca Pianesi


TRENTO. «È cominciato tutto per caso, in una stanzetta degli studi televisivi di Sky in un clima da “Carboneria”. Venti minuti a disposizione per registrare, nessuna possibilità di errore e tanta, tanta ricerca alle spalle, “rubando” dalla rete e da YouTube. Così è nato il programma L’Nba dei nostri padri». Ed è così che è nato il Federico Buffa come oggi lo conosciamo: quel «narratore straordinario - così lo definiva nel 2013 il critico Aldo Grasso dalle pagine del Corriere della Sera - capace di fare vera cultura, cioè di stabilire collegamenti, creare connessioni, aprire digressioni»; il Federico Buffa che vanta imitazioni straordinarie (su tutti gli Autogol «birbaccioni straordinari - ce li ha definiti - capaci di essere originali anche nell’imitare») e che domani, a partire dalle 18, in compagnia di Carlo Martinelli al Cinema Vittoria di Trento (ingresso gratuito, evento organizzato dalla Fondazione Cassa Rurale) racconterà lo sport con quel suo modo evocativo e avvolgente, partendo dalla sua carriera per ricostruire storie di vinti e vincitori, di agonismo e passione.

«La mia esperienza da narratore è nata sostanzialmente per “riempire” i vuoti tra una partita e l’altra dell’Nba - ci confessa, sorridendo, Buffa - poi la cosa è piaciuta e anche la redazione di Sky Calcio mi ha chiesto di riprodurre quel format. Siamo partiti con l’infanzia e l’adolescenza di Maradona ed è stato un successone. Ma il mio campionato resta l’Nba. È’ quello che continuo a seguire e ad amare».

Eppure, Buffa, tutto è nato grazie a un portiere di calcio, giusto?

Si. Non lo sa quasi nessuno, ma è vero. Al mondo dello sport mi sono avvicinato da bambino seguendo le gesta di un portiere del Milan. Era il ’66, avevo 7 anni e ai giardinetti andavo a giocare con la maglia di Barluzzi e mi ispiravo a lui. A suo modo già un personaggio da racconto. Era la riserva di Ghezzi ma finì per guadagnarsi il posto. Poi, nel ’67, passò all’Inter e non giocò più. Fu uno dei primi trasferimenti tra “cugini”.

Poi nel mondo Milan c’è finito davvero. E’ andato a lavorare a Milan Channel.

Negli anni sono sempre rimasto milanista. Nel 2003, poi, durante una trasmissione di Sky, c’era ospite Massimo Ambrosini e fuori onda abbiamo avuto un piccolo scambio di riflessioni. Pochi giorni dopo mi ha chiamato Mauro Summa di Milan Channel per chiedermi di collaborare con loro. E così fino al 2011 ho gestito una trasmissione un po’ particolare che rianalizzava gli incontri in chiave tecnica (La partita tattica). Poi Sky ha provato a convertirmi in giornalista calcistico a tutti gli effetti. I risultati sono stati tragici, ma nel frattempo avevo dovuto lasciare Milan Channel per non risultare “parziale” al “nuovo” pubblico e mi sono dedicato alle storie.

Lei ha raccontato le vite di grandi calciatori: Best, Maradona, Puskas. La Serie A, di oggi, la ispira?

Devo dire che oggi la Serie A la guardo poco (come pure quella di basket. Dell’Aquila, infatti, c’ha detto: «So che a Trento c’è una grande passione, ma qui mi fermo. Non mi piace dire banalità di circostanza», ndr). Preferisco la Liga. Però se c’è una figura interessante, nel nostro campionato, è certamente quella di Totti. Era già uno dei personaggi più importanti del calcio italiano dal dopoguerra ad oggi, un calciatore assoluto. Ma questa fine un po’ malinconica lo ammanta di un ulteriore romanticismo. In lui si ritrova la parabola della “legenda” che non riesce a chiudere.

Come diceva Henry Fonda ne “Il Mio Nome è Nessuno”: «Smettere a volte è più difficile che cominciare»?

Perfetto. Così facciamo anche un omaggio a Ennio Morricone e al suo Oscar visto che le musiche di quel film erano le sue. Smettere, bene, per il campione è difficilissimo. Quando ci deve pensare la società a dirti di farti da parte l’addio non può che essere malinconico. Così sta succedendo a Totti, ma così è successo anche a Del Piero e Maldini. Anche le loro non sono state “fini” indolori. Paolo, per esempio, ora è a Miami con la famiglia felice e contento. Ma il suo vero sogno era di rimanere a Milano a fare il dirigente e invece è stato messo da parte.

Uno che ha smesso prestissimo è Jesse Owens personaggio che lei sta portando a teatro con lo spettacolo “Le Olimpiadi del ’36”.

Owens smise di fare il professionista quasi subito dopo quelle olimpiadi corse a 23 anni. Dopo i quattro ori olimpici conquistati a Berlino, da atleta di colore, davanti ad Adolf Hitler, infatti, l’America lo trattò come un fenomeno da baraccone. Lo sottopose a tournèe assurde, come gare di corsa ad handicap con partenze ritardate e sfide di velocità contro addirittura dei cavalli.

Insomma un’America un po’ diversa da come ce l’hanno raccontata?

Vergini, nel ’36, non ne esistevano. A mancare di rispetto a Owens non fu Hitler, come hanno raccontato in tanti libri di storia, semmai fu Roosevelt, il presidente americano, il suo presidente, a farlo. E infatti dopo i 4 ori olimpici nessuno dalla Casa Bianca inviò mai un messaggio ufficiale di congratulazioni a Owens. La Germania, al contrario, rimase, sportivamente parlando, il ricordo più bello di Jesse che non a caso finì per chiamare la figlia con un nome tedesco: Marlene.

Eppure gli Usa quelle olimpiadi volevano boicottarle?

È vero. Poi, però, Roosevelt decise di affidare a un antisemita dichiarato, Avery Brundage, l’indagine per capire cosa stesse succedendo in Germania a cavallo del 1936. E questi riferì che lì tutto funzionava bene. Che non c’era nessun problema e non c’erano motivi per il boicottaggio. La cosa incredibile è che Brundage dopo la guerra, dal ’52 al ’72, diventerà il presidente del CIO (Comitato olimpico internazionale). Per intenderci sarà lui a dire “the show must go on” dopo l’uccisione degli atleti israeliani ad opera del commando Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco del ’72.

Lo sport, insomma, come fil rouge per raccontare la Storia.













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