Skrjabin, Andreoli racconta genio e follia

«Era un pazzo talmente creativo da influenzare Schönberg e Stravinskij» Sul palco con il celebre psichiatra anche il direttore del Conservatorio


di Jimmy Milanese


BOLZANO. La follia è una forma di sofferenza che talvolta si manifesta con forme artistiche di ineguagliabile genio creativo. Nel corso della storia, sono stati tanti i geni nei vari campi delle scienze e arti ad avere mostrato, durante la loro vita, segni inequivocabili di follia. A ricordare uno di questi geni folli, l’ altra sera al Conservatorio di Bolzano è arrivato lo psichiatra Vittorino Andreoli, invitato da Elettra Vassallo, direttrice della Scuola di Musica in lingua italiana di Bolzano e Giacomo Fornari, direttore del “Monteverdi”, proprio per spiegare l’ evoluzione della follia nel compositore russo Aleksandr Nicolaevic Skrjabin. Solo recentemente, ha spiegato Andreoli, la psichiatria ha ridisegnato i connotati della pazzia associandola alla creatività, quando per secoli si era creduto che il momento creativo geniale del folle fosse dovuto a una sospensione momentanea della malattia. Niente di più sbagliato, perché la creatività risiede perfettamente nella malattia psichiatrica, come nel caso del compositore russo che ha fatto della sua passione per la associazione tra suono e colori una ragione di vita. Skrjabin pianista nasce verso la fine dell’ Ottocento come esecutore, in particolare, delle opere di Fryderyk Chopin. È, la sua, una infanzia infelice caratterizzata da quattro traumi che lo condurranno alla sua personale follia e morte prematura. Rimasto orfano di madre nel 1872, ovvero a un anno dalla sua nascita, Skrjabin deve immediatamente fare i conti con un dramma immane, per chi volesse fare del pianoforte la sua ragione di vita. Infatti, già da ragazzino è nella classe del maestro Nokolaj Zverev assiema all’ amico Sergej Rachmaninov con il quale si instaura una schietta competizione sistematicamente persa da Skrjabin per via di quella sua mano destra estremamente piccola che non riesce a coprire più di una ottava. Le sue composizioni precoci al piano per solo mano destra sono il disperato tentativo di non cedere alla tendinite che lo stava lentamente divorando. Il terzo trauma, individuato da Andreoli nel tentativo di definire la diagnosi psichiatrica più appropriata per la pazzia del compositore russo, si materializza quando, obbligato dalla famiglia aristocratica a frequentare una scuola militare, Skrjabin è vittima di bullismo per via di quel suo modo effeminato di porsi. La sua omosessualità diventa una condanna senza appello quando nel 1893 viene dichiarato inidoneo al servizio di leva riservato alla nobiltà russa. La reazione violenta a questa ennesima sofferenza psichica è un tuffo nell’ alcol e nei bordelli moscoviti, proprio nel tentativo di creare una immagine pubblica del Don Giovanni che però nulla aveva a che vedere con il suo stato interiore. «Skrjabin è privo di elementi mascolini in una società che manda a morte le persone affette da quella che era considerata una malattia – spiega Andreoli – ma è proprio nella spinta alla creatività che il suo genio troverà la rivendicazione delle sue difficoltà». Quindi, l’ autore russo decide di abbandonare la sua carriera di esecutore, si dissocia dalla struttura compositiva che dominava l’ inizio del Novecento e si getta nella composizione di poemi monodici. Si sposa e risposa, genera ben sette figli, e nel 1910 compone il «Prometeo»: poema per orchestra nel quale Skrjabin si identifica scrivendo una musica dalla caratteristiche eroiche, ma allo stesso tempo, con un lampo di genio, trasformando il pianoforte in uno strumento nascosto tra gli orchestrali. Il percorso verso la follia continua imponendo agli impresari di colorare i tasti dei pianoforte, usati nel corso delle rappresentazioni, con quei colori che Skrjabin associava a ciascuna nota, fino ad affermare che: «la musica deve essere una esperienza visiva legata alla percezione dei colori». Una follia che sa tutta di genio, e che produrrà i primi spettacoli multimediali della storia, nei quali il suono del pianoforte viene trasformato in fasci di luce proiettati sulle pareti. Negli ultimi anni della sua esistenza, terminata in coincidenza con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il compositore russo si dedica alla realizzazione di un’ opera che non verrà però mai eseguita. Il «Mistero terminale», spiega Andreoli, doveva essere la rappresentazione delirante della visione del mondo di Skrjabin. Un delirio nel quale, appunto, l’ autore sarebbe dovuto essere al centro della scena, per un’ opera della durata di 7 giorni, da eseguirsi in un teatro costruito per l’occasione alle pendici dell'Himalaia! «A questo punto – conclude Andreoli – lo avrei ricoverato anch’ io come mio paziente, ma come sempre ho fatto con chi ho curato, solo per rendere giustizia al magnifico mondo dei folli». Un folle talmente geniale da essere stato preso come maestro da compositori ben più noti come Stravinskij e Schönberg, ma per il quale lo psichiatra che a parlare della follia dei musicisti ci ha preso gusto (dopo il caso Mozart), ha perfino trovato una diagnosi specifica. «Skrjabin soffriva di deliri, e il delirio in lui non era frutto della immaginazione di un folle, ma qualcosa che veniva percepito dal soggetto come la vera e unica esperienza diretta – spiega Andreoli – tanto da farmi concludere che si trattasse di una forma patologica delirante ma con spazi vuoti chiamata Parafrenia Fantastica». Una forma di paranoia che però permetteva momenti nei quali ai più Skrjabin deve essere sembrato un tipo del tutto normale al punto che, fino alla sua morte, il compositore russo tenne regolarmente concerti pubblici a pagamento. Insomma, un genio che viveva i suoi traumi come nuclei persecutori o di grandezza ma che allo stesso tempo era capace di svolgere le funzioni correnti con la tranquillità dell’ uomo qualunque.















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