I soldati trentini dell’Armir prigionieri nei gulag sovietici 

L’incredibile storia ritrovata dal giornalista della Rai Stefano Mensurati


di Christian Giacomozzi


Capita, a volte per scelta deliberata, a volte per caso, che alcune pagine di storia abbiano meno fortuna di altre. Non che siano meno significative o meno incisive nella storia dell’uomo: semplicemente, per un concorso di cause (o di colpe) spesso difficilmente ricostruibile, queste pagine non ottengono l’attenzione che esse meriterebbero. Nel triste elenco delle tragedie dimenticate, un posto di assoluto rilievo è occupato dalla sorte degli Italiani deportati in Gulag, sistema sovietico di campi di concentramento e di lavoro coatto che ha fagocitato milioni e milioni di vite per buona parte del Novecento.

Questa vicenda ha suscitato l’interesse di Stefano Mensurati, giornalista Rai, scrittore e conduttore radiofonico. Partito dalla ricerca di una minoranza italiana in Crimea, il suo percorso l’ha portato a rintracciare alcune storie totalmente ignorate dalla maggior parte degli Italiani, come il destino di un migliaio di soldati dell’Armata Italiana in Russia (Armir), impegnata sul fronte orientale tra ’42 e ’43 e distrutta dall’Armata Rossa.

Tantissimi nomi che attendono di essere riconsegnati alla memoria di un Paese ma anche alla memoria dei parenti sopravvissuti, privati per più di mezzo secolo del conforto di qualche notizia. Mensurati farà perciò tappa oggi, 5 settembre, a Trento: alle ore 17, presso la Sala Conferenze della Fondazione Caritro (Via Calepina, 1), avrà luogo l’evento “I soldati Trentini dell’Armir prigionieri nell’Arcipelago Gulag. Storie dimenticate per una memoria condivisa”, durante il quale si darà conto del ruolo del Trentino in una vicenda poco nota. Abbiamo intervistato il promotore dell’iniziativa.

Mensurati, quali ragioni l’hanno portata a interessarsi di questa storia?

«Da alcuni anni mi occupo di una piccola minoranza italiana che vive in Crimea, sul Mar Nero. Questi italiani, provenienti soprattutto dalla Puglia, vi arrivarono nell’Ottocento, dopo che lo Zar aveva proposto esenzioni fiscali per riqualificare un’area fertile ma abbandonata. Per i primi cento anni la comunità si inserì perfettamente nel tessuto della Crimea, popolandola di pescatori, agricoltori e commercianti. A inizio Novecento, tra le comunità straniere insediatesi in Crimea, quella italiana era la più ricca e benestante. Con l’avvento del Comunismo cominciarono però i problemi: prima vi fu la collettivizzazione, per mezzo della quale le proprietà private furono requisite; poi vi furono le purghe staliniane nel ’37-’38, vendette incrociate contro gli Italiani di Crimea sulla base della loro origine, anche se la comunità abitava la penisola sul Mar Nero dagli anni ’20 del secolo precedente. In grandissima parte questi Italiani furono fucilati, torturati, imprigionati. Si voleva far perdere l’identità di comunità e le famiglie furono smembrate.

Nel ’42, come vendetta contro l’invasione italiana dell’Unione Sovietica, ci fu un rastrellamento casa per casa a Kerch, città oggi nota per il ponte costruito da Putin tra la Crimea e la Russia, seguita dalla deportazione in Kazakistan nei Gulag. Tre anni fa c’è stata la riabilitazione ufficiale da parte di Putin, che ha inserito la comunità italiana tra quelle perseguitate e deportate. Questo riconoscimento ha comportato la possibilità di ottenere un risarcimento per le proprietà perdute al momento della deportazione. I deportati furono circa 2000: ne tornarono 78, meno del 5%, e si trovarono la casa occupata da altri. Con questo riconoscimento c’era la possibilità di ottenere un indennizzo. Per ottenerlo, serviva il certificato di deportazione, che poteva essere fornito soltanto dal Gulag di destinazione. Con un finanziamento, sono riuscito a mandare due ricercatori in Kazakistan nel Gulag a cercare tracce di questi Italiani. Con grande sorpresa a Karaganda, accanto agli Italiani di Crimea, abbiamo rintracciato per caso anche mille nominativi di militari italiani provenienti da tutta la Penisola, appartenenti all’Armir, finiti nello stesso Gulag ai lavori forzati e che si credeva dispersi durante i combattimenti. Abbiamo fotografato le loro schede di prigionia, suddividendole per area di provenienza. Quando, portando in giro per l’Italia la mostra itinerante sugli Italiani di Crimea, capitiamo in una data città, cerchiamo i parenti dei soldati di quella zona, li invitiamo e regaliamo loro un quadretto con la scheda di prigionia del loro familiare. Non è una questione solo formale, bensì sostanziale: su queste schede sono scritti il luogo e la data di morte e, in molti casi, il luogo di sepoltura, utili a ricostruire le ultime vicende di un caro dato a lungo per disperso».

E a Trento come arriva?

«Grazie alla Onlus “L’Uomo Libero” di Riva del Garda e al suo presidente Walter Pilo, ideatori anche di “Ta Pum”, percorso sui luoghi di battaglia della Prima Guerra Mondiale, la Fondazione Caritro ha finanziato un progetto per cercare notizie specifiche sui soldati di Trento e provincia finiti prigionieri nei Gulag sovietici.

Molti soldati partiti per la Russia sono morti durante la ritirata seguita alla disfatta dell’esercito italiano, cadendo in mezzo alla neve. Altri, catturati, sono stati fucilati. Altri sono morti durante le marce del “davai”, “avanti” in russo: con la rotta, rovinosa, dell’Armir nell’inverno tra ’42 e ’43, i soldati furono fatti prigionieri dall’Armata Rossa che, nel suo avanzare, spostava i prigionieri nelle retrovie, manovra forzata che ha portato alla morte di migliaia di uomini. Chi arrivava a destinazione, veniva poi smistato nei Lager, a seconda della capienza dei diversi Gulag».

Come è stato possibile ricostruire il destino di tanti uomini?

«Nel 1991, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, fu stipulato un accordo tra le autorità russe e Onorcaduti, organismo del Ministero della Difesa che si occupa dei caduti e dei dispersi delle due guerre mondiali, in base al quale è stato dato accesso a una mole di documenti relativi ai soldati italiani prigionieri in Russia. I documenti sono arrivati in Italia e al Ministero sono stati tradotti, classificati e messi a disposizione in un archivio online, molto dettagliato ma in alcuni casi impreciso, poiché nei documenti storici ci sono diversi errori di traslitterazione. Il soldato Alberto Rossi di Ferrara, ad esempio, è diventato, negli atti dell’interrogatorio a seguito della cattura, Rosci. Ci sono molti altri nomi storpiati e località incomprensibili. Purtroppo parecchi dati sono inutilizzabili. A ciò si aggiungano le cifre del progetto. I soldati classificati sono circa 60000: cercare i parenti di questi soldati è una fatica immensa. Questo lavoro il Ministero non l’ha fatto.

Nel 1991, i parenti che 50 anni prima cercavano i loro congiunti spesso erano morti a loro volta, o avevano smesso di cercare. Inoltre non tutti avevano Internet per consultare l’archivio e i nipoti, che ora potrebbero proseguire l’indagine, molto spesso non se ne interessano più, perché sentono lontana da loro questa storia. Perciò il progetto non si è tradotto in una ricostruzione di reti familiari spezzate dalla guerra. Noi ora, grazie anche al progetto della Caritro, abbiamo dati molto più precisi e siamo i primi a informare le famiglie. Abbiamo riconsultato i documenti negli archivi a Mosca. Abbiamo tradotto le schede e siamo pronti a consegnare il nostro risultato a Trento.

Nel corso della conferenza di questo pomeriggio, dopo un inquadramento storico della vicenda, ci sarà una cerimonia di consegna dei quadretti con le schede di prigionia di 25 Trentini, provenienti da tutta la provincia, come Arco, Rovereto, Civezzano. Ci saranno i sindaci dei comuni coinvolti e le autorità militari, ma soprattutto le famiglie dei soldati di cui si era persa la memoria».

Quale reazione registra da parte del pubblico, quando porta all’attenzione la vicenda dei soldati italiani in Russia?

«Registro molta gratitudine. Si tratta di un lavoro che nessuno ha mai fatto. Scatta una catena di richieste di aiuto, da parte di persone che cercano di ricostruire le vicende di qualche caro di cui si sono perse le tracce in situazioni analoghe. In molte regioni, soprattutto nel Nord-Est, si sente l’attaccamento a questi fatti. È una memoria che si riscopre, poiché sopita ma mai cancellata. Essa si è scontrata in passato con l’assenza di collaborazione da parte delle autorità sovietiche ma riacquista speranza, ora, con la pubblicazione degli archivi».

Quale impatto ha avuto questa vicenda nella percezione comune?

«Di questa storia si è iniziato a parlare solo negli ultimi decenni. Non era una ferita aperta. Non riguardava una parte precisa del Paese, ma si trattava di una sofferenza parcellizzata, nebulizzata. Era una sofferenza personale, che a livello di opinione pubblica ha visto l’interesse spegnersi molto rapidamente, nonostante gli elevati numeri che hanno colpito quasi centomila famiglie.

In tal senso, questa vicenda non ha mai avuto un peso politico specifico e si è consumata presto. Solo qualche famiglia è stata informata degli sviluppi.

Il Ministero, infatti, aveva una sorta di obbligo morale verso il soldato a cui veniva attribuita una croce al merito e per questo motivo, nell’impossibilità di rintracciare il soldato, veniva contattata la famiglia per la consegna. Qualcuno ha saputo qualcosa, ma in modo parziale. Ora i dati sono molto più completi e si potrebbe valorizzarli. Il materiale emerso da queste ricerche, tra cui anche moltissime fotografie che documentano le condizioni dei soldati, è ancora largamente inesplorato».

Quale messaggio per il futuro può condensare la vicenda dell’Armir?

«A distanza di tanti anni, i documenti ora accessibili aspettano ancora di essere sfogliati. Dall’oblio non deve derivare un altro oblio. Si deve investire sulla ricerca e portarla a frutto, suscitando interesse per la ricostruzione storica. È anche, forse, un dovere morale nei confronti delle famiglie private per troppo tempo di notizie dei loro cari».

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