Tra paura e attrazione Fichera racconta la relazione uomo-orso

Il complesso rapporto tra plantigrado ed essere umano nel romanzo «Il soffio dell’orsa», ambientato in Trentino


di Gianfranco Piccoli


TRENTO. Epoche diverse, ma la complessità del rapporto tra l'uomo e l’orso non cambia. Il nuovo romanzo di Rosario Fichera, “Il soffio dell'orsa” (Arti Grafiche Saturnia, 240 pagine, 15 euro), appena uscito nelle librerie e presentato ieri pomeriggio al Muse, ci riporta nel clima dell'Impero d'Austria di fine Ottocento, quando la caccia al plantigrado non solo era permessa, ma persino premiata con denaro sonante dalle autorità. Il racconto di Fichera si muove tra i paesaggi del Brenta Orientale, del Fausior (il monte che guarda su Fai della Paganella), della valle dello Sporeggio e della Paganella, sentieri, boschi e profumi che l'autore conosce molto bene.

Fichera, infatti, origini siciliane (si porta nel dna i pendii dell'Etna, dov'è cresciuto), cittadino del mondo per vocazione e per necessità (ha lavorato tra Milano e Lione prima di approdare a Trento), qualche anno fa ha abbandonato la comoda abitazione nel centro storico del capoluogo, dove lavora, per trasferirsi con la famiglia, in un percorso decisamente controcorrente, a Fai dalla Paganella. Un luogo a lui caro sin da bambino e dove oggi traggono ispirazione le sue narrazioni: personaggi, luoghi e descrizioni hanno preso forma e anima attraverso la frequentazione quotidiana della natura.

“Il soffio dell'orsa”, dunque, è ambientato nel Welschtirol di fine Ottocento, ma il contenuto è di grande attualità. Non solamente per quello che oggi raccontano le cronache dopo la reintroduzione dell'orso con il progetto Life Ursus (i comitati anti-orso ci sono oggi ma c'erano anche, in forme diverse, nell'epoca narrata dall'autore), ma anche per i contenuti inconsci che il romanzo restituisce al lettore.

L'orso, infatti, non può essere ridotto all’immagine del predatore che attacca gli allevamenti (nell'Ottocento come oggi), ma è anche, o soprattutto, l'animale su cui l'essere umano facilmente proietta paura inconsce, che nascono non dalla conoscenza ma dalla NON-conoscenza di questo mammifero schivo e notturno. Non è un caso che, prima delle teorie evoluzionistiche di Darwin, l'orso fosse in alcune culture ritenuto un antenato dell'essere umano.

L'orso catalizza il lato oscuro e selvatico dell'uomo, che nei confronti del plantigrado può provare sentimenti contrastanti, di terrore e di fascino allo stesso tempo. Mantenere un punto di equilibrio – e quindi di consapevole relazione - con il lato oscuro e selvatico è fonte di armonia per l'essere umano. Quando questa relazione viene a rompersi, o viene negata, si precipita nella paura. E così serve l'intervento di un “uomo saggio”, che nel libro è ben rappresentato dal professor Berger (scienziato, certo, ma anche “dottore dell'anima”), per ricomporre questa armonia. Una ricomposizione che nel libro infine avviene, pur tra mille difficoltà e qualche lutto.

La relazione con l'orso, in quanto simbolo del lato oscuro e selvatico, si può muovere tuttavia su un altro binario, altrettanto pericoloso: quello della completa identificazione con esso, così da trasformare l'uomo in bestia. Anche questa immagine trova una sua forma precisa nel romanzo attraverso la figura di Herbert, l'uomo-orso. Un tema. , complesso, dunque, quello affrontato da Fichera, che va ben oltre la cronaca di allora e di oggi. Una complessità che vive con i personaggi de “Il soffio dell'orsa” attraverso episodi che non di rado hanno trovato spunto da fatti di cronaca realmente avvenuti nell'epoca in cui il romanzo è collocato. Chi abita o conosce le zone in cui si animano i racconti di Fichera troverà inoltre piacere nel riconoscere toponimi noti e probabilmente cari.

Il libro di Rosario Fichera si apre con una dedica: «A tutti quelli che amano la montagna». Più che una dedica, tuttavia, quello di Fichera appare come un sentimento di amore verso la natura. Ed è curioso che lo stesso autore, che da anni vive e studia la natura e la storia trentina, abbia scelto di abitare ai piedi di quella montagna, la Paganella, che è diventata in tempi recentissimi il simbolo della convivenza difficile tra lo sviluppo e la natura, tanto da spingere la Sat, nel 2008, con “l'editto di Zambana” lanciato dall'allora presidente Franco Giacomoni, ad annunciare l'abbandono dei sentieri della Paganella. Una frattura che solo oggi, con pazienza, si sta in parte ricomponendo.













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