Roncone e i profughi, due mondi che convivono senza parlarsi

Gli anziani del paese: «Partono la mattina e tornano la sera, stanno per conto loro». Il parroco: «Non conoscersi porta alla diffidenza». Ma i volontari lavorano con le aziende del posto


di Francesca Quattromani


TRENTO. Proseguono serrate, nelle Giudicarie, le indagini dei carabinieri per risalire agli autori dell’attentato incendiario di giovedì notte alla casa dei profughi di Roncone. Intanto la procura ha aperto un fascicolo. In paese non si parla d’altro. Al tavolo della briscola di Roncone, il carico lo mettono gli anziani: «Il vero emigrante aveva un contratto di lavoro, un posto di lavoro. Viveva degnamente, si guadagnava da vivere, non andava a farsi mantenere». Altra mano: «Ma come fanno a lavorare se lavoro qui non ce ne è? Se la gioventù di Roncone “l'è meza a ca”».

I giovani di Roncone che non hanno lavoro. Il paese che si svuota. Un tempo c’erano i turisti che arrivavano dal bresciano, ora ci sono i profughi. «Basta che non gli vendiamo le armi - dice un notabile di coppe e spade - basta che non portiamo via le materie prime e le risorse naturali che hanno. Se creiamo guerre e instabilità cosa devono fare questi?». Quattro chiacchiere per il paese. Gli orti rinascono, un uomo arieggia la terra. «No, non so niente. Nemmeno li vedo. So che ci sono ma stanno per conto loro».

Sotto la chiesa, per stretti vicoli, nella via maestra, quella dove passano i trattori. Due belle signore passeggiano. «Ma come, è successo qualcosa, la scorsa notte? Non sapevamo niente. Non ci siamo accorte di nulla». Ma li vedete gli ospiti della casa? «Appena. Stanno su, non danno mica fastidio». Nemmeno la signora che abita accanto a casa Amistadi si era accorta dell’arrivo dei vigili del fuoco, del trambusto nella notte. «Nemmeno loro, vedo. Partono la mattina e tornano la sera». Ma qualcuno ci parla con queste persone? «Ma no, un saluto».

Questi 12 profughi non tante persone li conoscono. «Ma che cosa fanno tutto il giorno?». Questa è la domanda più frequente per le strade del paese. Il solo fatto noto ai più è che prendono la corriera la mattina e con la stessa tornano la sera. «Andranno a Trento. A fare cosa non si sa». «Pare che la spesa la facciano a Trento, ma perché?» . La voce del borgo si è già levata, compatta: non è stato uno di noi a bruciare quella porta. «Se fossimo stati gli autori di quel gesto, potevamo averlo fatto anche prima», spiega Marina per rafforzare il concetto.

Di fondo, resta però una certa diffidenza che attanaglia entrambe le parti, ospiti ed ospitanti. I primi hanno difficoltà nella lingua, sono impegnati tutto il giorno. Hanno qualche convenzione per gestire la quotidianità, trasporti, spesa. Pochi però i denari nelle tasche. Di passaggio frequentano il tabacchino del paese, prima di tornare su, alla casa. Non frequentano i bar. Non è nelle loro abitudini. La sera escono di rado, per fare quatto passi. Dopo la scuola, la formazione, il lavoro, stanno tra loro. Comunicare, raccontare di sè, del proprio passato, dei propri sogni, è più semplice. Questione di lingua, non altro, dicono i profughi. Dall'altra parte c’è il paese. Lo stesso che, guardando di notte giù dalla finestra, ha visto che qualcosa bruciava, alla casa dei profughi e ha dato l'allarme. I giovani hanno una vita frenetica. Gli anziani hanno il tempo per confrontare le pagine della storia.

I trenta che sanno di più sono i volontari del paese di Roncone, quelli dell'associazione «More» che questi stranieri li segue, ne ha cura. « Non si integrano, stanno tra loro», dice il paese. «Noi salutiamo, non sempre le persone di qui però ricambiano», raccontano invece i profughi». Il non conoscere la storia dell'altro porta alla diffidenza, dice il parroco di Roncone don Celestino Riz.

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