Pensioni, i traditi dallo «scivolo»

In Trentino mobilità insufficiente: l'Agenzia del lavoro avvia un «censimento»


Paolo Morando


TRENTO. Nelle pieghe del decreto "salva Italia", alla voce pensioni, si nasconde una brutta sorpresa per chi è in mobilità non per effetto di accordi collettivi: l'applicazione delle nuove norme previdenziali, dunque l'abolizione delle finestre mobili e l'innalzamento dei requisiti richiesti. Si tratta di lavoratori licenziati da imprese con meno di 15 dipendenti, che magari avevano concordato un esodo incentivato dall'azienda, calcolando poi di raggiungere il giorno della pensione usufruendo di assegni di mobilità. Una prospettiva che ora si allontana.

Il nuovo testo dell'articolo 24 della manovra, dopo gli emendamenti apportati nell'iter parlamentare, al comma 14 prevede la non applicazione della riforma delle pensioni per i lavoratori collocati in mobilità sulla base di accordi sindacali collettivi stipulati prima del 4 dicembre. Con alcune importanti modifiche rispetto al testo originario del decreto: la prima, l'estensione del limite temporale, che in precedenza era indicato nel 31 ottobre. La seconda, soprattutto, la mancata definizione in 50 mila del limite dei lavoratori beneficiari dell'esenzione, che sarà invece determinato da un decreto ministeriale entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della stessa manovra, attraverso il rispetto di precisi tetti di risorse: 240 milioni di euro per il 2013, 630 per il 014, 1.040 per il 2015, 1.220 per il 2016 e così via.

Cifre che, con l'andare degli anni (dopo il 2016 le risorse previste calano, fino a 300 milioni per il 2019) potrebbero anche non essere sufficienti per accontentare tutti. Ma sia nel testo originario del decreto che in quello approvato venerdì dalla Camera, come detto, nulla si prevede per gli altri lavoratori in mobilità, quelli appunto licenziati da microaziende. Che dunque, quando non avranno più diritto alle indennità di mobilità, rischiano seriamente di ritrovarsi da un giorno all'altro senza forme di sostentamento e con il traguardo della pensione lontanissimo. Quando invece, prima della riforma, quel medesimo traguardo si collocava a ridosso della data di cessazione del diritto all'assegno. Il problema è già all'attenzione dell'Agenzia del lavoro, che in questi giorni procederà a effettuare una sorta di "censimento" dei disoccupati fino a ieri vicini alla pensione e che ora rischiano invece di restare con un pugno di mosche in mano.

Secondo stime sindacali, in Trentino si tratterebbe di diverse decine di persone, forse anche un centinaio. Stime comunque tutte da verificare, visto che evidentemente si tratta di analizzare caso per caso. Si tratta comunque di lavoratori che godono dell'indennità regionale (ma erogata dalle Province) di mobilità: ne hanno diritto coloro in quali, alla data del licenziamento, possono far valere un'anzianità aziendale di 12 mesi di cui gli ultimi 3 con rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la medesima azienda. L'assegno viene erogato per un massimo di 12 mesi se il lavoratore è di età inferiore ai 50 anni e per 20 mesi nel caso di ultracinquantenni: mensilità che, grazie ai provvedimenti provinciali anti crisi, dall'anno scorso in Trentino sono state "allungate", visto che in precedenza si faceva riferimento a una legge nazionale (la 236 del 1993) che fissava le indennità rispettivamente per durate di 8 e 12 mesi. L'ammontare dell'assegno è pari all'80 per cento della retribuzione, fino a un massimo di circa 900 euro mensili.

Che cosa accadrà a questi lavoratori collocati in mobilità volontaria con una prospettiva di pensione ora non più così concreta? Il problema è sia politico che sindacale. L'unica possibilità, spiega Franco Ianeselli della segreteria della Cgil (rappresentante del sindacato nel consiglio d'amministrazione dell'Agenzia del lavoro), è quella di ipotizzare un aumento degli ammortizzatori sociali, «come già è stato fatto estendendo la durata delle indennità, magari fino a 24 mesi per i lavoratori che ora vedono slittare la possibilità della pensione». Ed è un tema che il sindacato intende porre al più presto alla Provincia.

Più labile invece il salvagente del "Progettone", che pure sembrerebbe lo strumento più adeguato per risolvere situazioni come queste. E le nuove regole di accesso prevedono la possibilità di ricorrervi per donne licenziate a 49 anni e uomini a 53, comprendendo dunque tutta la fascia di età, per così dire,in odore di pensione. «Ma sarebbe inopportuno ricollocare nel "Progettone" uomini e donne solo per quei pochi mesi che li dividono dalla pensione - afferma Ianeselli - lo ritengo disfunzionale dal punto di vista produttivo oltre che poco dignitoso per lo stesso lavoratore».













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