L’orto di Bertoni? Come quello dei frati

Inventato nei conventi per faticare meno , ora trapiantato a Campi: non si vanga, non si concima e dà verdura ottima



RIVA. A Campi, sorpassata di poco l'ultima casa della frazione Zucchetti sulla strada vecchia della Pinza, Angiolino Bertoni coltiva il suo orto sinergico che però lui preferisce chiamare “orto del frate” perché in Umbria, dove ha visto applicata l'idea che poi ha copiato, si racconta che l'abbiano inventato nei conventi per faticare di meno. Il criterio che l'ispira rinvia dritto dritto al bosco: nessuno vanga, né ara né concima, eppure c'è un terreno favoloso, fresco leggero, umido, ricco dei fermenti della decomposizione di erbe, foglie, radici: dove piante, microrganismi, insetti insomma tutto quel che vive (e perciò prima o poi muore), non ingaggia lotte biologiche, ma concorre al compiersi del miracoloso equilibrio della natura.

Nell'orto dei frati, una volta che si siano messe a dimora quand'è la stagione giusta le piantine cresciute nel semenzaio, non si fa altro che aspettare l'ora del raccolto: non sono banditi solo diserbanti e granelli di azoto, ma è vietato anche strappare le erbacce perché assicurano un loro contributo. Unica avvertenza, quella di variare di anno in anno, le semine per assicurare la rotazione: quest'anno dov'erano i pomodori cresce insalate di varietà diverse, compresa una trentina autoctona, nel senso che è la stessa qualità da quarant'anni in qua: le piante completano il ciclo della maturazione e le semenze raccolte forniscono le piantine per l'anno successivo.

Angiolino Bertoni per costruire il suo orto ha ritagliato una striscia, delimitata da tronchi, di sette od otto metri per uno e mezzo dal prato dove la varietà dei colori dei fiori, gialli, azzurri, rossi, violacei dichiara l'assoluta assenza di concimazioni; ha spaccato la cotica mescolando terra ed erbacce ed ha coperto il tutto con uno strato d'una decina di centimetri di erba macinata. L'anno dopo sullo strato di erba macerata, d'un brutto colore marroncino come di fieno andato a male, ma dal forte e complesso odore di terra ad annusarne un pugno, ha cominciato a piantare: finocchi, aglio, insalate, pomidori, piselli, zucchine che restano piccole, cavolfiori che si sciolgono dolcissimi in bocca ma si possono cuocere senza aprire le finestre, fagioli. Per quelli, se proprio alla disperata serve un aiuto contro i pidocchi, è ammesso il trattamento: acqua, sapone di marsiglia e due cucchiai d'aceto.

Il primo orto funziona da otto anni, il secondo da quattro: nel corso dell'autunno Angiolino ha intenzione di allargarsi: nel prato pianeggiante sostenuto dal muro a secco, ce ne stanno ancora sei o sette. L'operazione è completata dalla ricerca di sementi autoctone, ossia di qualità vegetali riprodotte negli anni dai contadini, senza ricorrere ai pacchetti sterilizzati offerti dalle multinazionali. Qualcosa c'è già: un mais, una qualità di patata (che riconoscono anche i nipoti cittadini, appena l'assaggiano dalla nonna), un filare di fragole che rendono al confronto immangiabili tanto sono slavarite quelle coltivate nelle serre dentro le cassette rialzate da terra. Paolo Miorelli, tecnico dell'Istituto di San Michele: approdato a Campi per seguire il programma di recupero dei castagni ha finito per seguire anche l'esperimento dell'orto del frate. Per lui occorre distinguere bene: una cosa è la produzione dell'Angiolino Bertoni, cui non importa niente della quantità, che non si scandalizza se una foglia dell'insalata è bucata da un parassita affamato, che dei bozzi neri d'una mela si fa il classico baffo. Lui è in certo senso, un artista dell'orto. Ben diversa la situazione di chi deve campare di quel che la terra produce. (c.g.)













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