Insulti web per il gatto morto: querelato 

Accusato di diffamazione un uomo che aveva infierito sui social contro il venditore di un micio che si era ammalato



TRENTO. Aveva comprato un gatto di “nobile lignaggio” e prezzo impegnativo, in Trentino. Il felino però era deceduto e lui, l’acquirente, non potendo rivalersi economicamente su chi gli aveva venduto il micio, aveva preso ad insultare lo stesso venditore sui social.

Finisce in tribunale la vicenda che vede querelato per diffamazione un trentacinquenne di fuori provincia. L’uomo, lo scorso anno, si era affidato ad un allevamento trentino che, da tempo, lavora nel settore. I cuccioli che da questo allevamento provengono hanno alle spalle una “casa” conosciuta, nota e che da sempre opera nel rispetto nelle norme igienico sanitarie del caso, appunta la difesa. Ora accade che il signore avesse acquistato il felino, razza Devon Rex, al prezzo di 900 euro, firmando un contratto di cessione piuttosto dettagliato. Il micio però, a distanza di qualche tempo, si era ammalato ed infine era deceduto. Aveva contratto una patologia dall’incidenza non prevedibile e dalle conseguenze notoriamente infauste, la peritonite infettiva felina. La diagnosi, in questo caso, è possibile solo dopo il decesso dell’animale, mediante un’autopsia. Nonostante sul contratto fosse previsto che ogni lamentela dovesse essere comunicata tramite raccomandata, l’acquirente insoddisfatto ha preso a contattare il venditore del gatto sulle piattaforme social. Toni aggressivi, con i quali si imputava al venditore la responsabilità del decesso del gatto. Il realtà al micio erano stati fatti, come da regolamento, tutti i controlli del caso, con tanto di certificato medico. L’acquirente però rimaneva saldo nelle sue convinzioni, voleva essere risarcito. Al venditore dunque chiedeva non solo i denari spesi per comprare il gatto, 900 euro, ma che le spese di eutanasia e di cremazione. Se non li avesse ottenuti, ammoniva, ne avrebbe chiesti quasi 2000, ovvero le spese sostenute per la cura del micino. Avendo agito nel rispetto della legge, il venditore non aveva ceduto alle richieste; aveva onorato il contratto di vendita. L’acquirente allora avrebbe iniziato a insultare il proprietario dell’allevamento su whatsapp (con conseguente blocco, da parte del destinatario) ma poi anche sulla pagina facebook dell’allevamento stesso. Accuse dirette, in un primo tempo, poi tramutatesi, secondo il querelante, difeso dall’ avvocato Nicola Degaudenz, in una ridda di commenti sull’azienda in questione, volti a minarne la reputazione nel settore dell’allevamento. Il venditore si sarebbe dovuto vergognare della propria condotta; condotta che ormai, a causa dei social, era stata resa pubblica, distorcendo appunto, secondo l’accusa, la realtà dei fatti. Nell’orditura della diffamazione, l’uomo aveva coinvolto anche la moglie, oltre che crearsi egli stesso degli account clonati dopo che i suoi, personali, erano stati bloccati dall’allevatore sommerso da frasi ed accuse diffamanti.

Di queste, ora, l’acquirente insoddisfatto dovrà dar conto in aula. (f.q.)













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