Il lascito Pasqualini frutta una miseria

Dai 13 milioni depositati sul conto corrente 130 mila euro l’anno, l’investimento in Btp ne garantiva oltre 420 mila


di Paolo Morando


CASTELLO TESINO. Benché gettata lì in poche righe, quasi in coda a un documento di cinque pagine fittissime, l’ammissione è clamorosa. Ma in verità neppure sorprendente, alla luce di quanto scritto dal Trentino negli scorsi mesi. Stringi stringi, la sostanza è che il patrimonio finanziario dell’Apsp “Suor Agnese” di Castello Tesino, il cosiddetto “lascito Pasqualini” pari a oltre 13 milioni di euro, sta fruttando una miseria rispetto alle proprie potenzialità. E continuerà a farlo almeno fino a quando non verrà affidato a un gestore professionale, che verrà individuato attraverso un bando di cui si attende la pubblicazione. Lo si evince dalla risposta dell’assessora provinciale alla salute e alla solidarietà sociale Donata Borgonovo Re all’interrogazione presentata il 2 febbraio dal consigliere della Lega Nord Maurizio Fugatti, che proprio in seguito agli articoli del nostro giornale aveva chiesto chiarimenti scritti alla Provincia: tra questi alcuni relativi alla gestione del lascito, in particolare sotto il profilo degli investimenti finanziari, che pure il Trentino aveva invano richiesto alla stessa Apsp. Il che aveva tra l’altro spinto un altro consigliere provinciale, Claudio Civettini della Civica trentina, a presentare esposti alla Procura della Repubblica e a quella regionale della Corte dei conti. Va detto che la risposta dell’assessora altro non è che un taglia e incolla da una nota della stessa “Suor Agnese” datata 4 marzo, a cui Borgonovo Re ha insomma dato carta bianca nel replicare ai quesiti di Fugatti. E conferma, la nota, quanto rivelato dal Trentino: la dismissione dell’investimento in Buoni del Tesoro poliennali a tasso fisso (con valori nominali fra il 3,75 e il 5%) e a lunga scadenza (la maggior parte fra il 2034 e il 2040) e il deposito dell’intera somma su un conto corrente della Cassa Rurale Valsugana e Tesino, che per l’Apsp cura il servizio di tesoreria. E qui sta il nocciolo della questione.

Il rendimento attuale. La risposta all’interrogazione recita testualmente quanto segue: «Il conto corrente dell’Ente offre un tasso pari all’1% + l’Euribor tre mesi ed è pertanto paragonabile ad un titolo di stato a tasso variabile». Fermiamoci, perché non tutti sanno che cosa significhi quell’«Euribor tre mesi». L’ultimo valore, fissato proprio l’altro ieri sui mercati finanziari, corrisponde allo 0,016. E non è che in passato tale cifra fosse poi molto diversa: all’inizio dell’anno (valore del 2 gennaio 2015) eravamo allo 0,076%, un po’ di più dodici mesi prima (0,28) ma comunque ben distante dal mezzo punto. Che cosa significa tutto questo? Basta fare due conti. In questo momento, e ormai da oltre un anno, su un patrimonio di circa 13 milioni di euro l’Apsp gode di un rendimento di neppure l’1,1%. Cioè 130 mila euro all’anno. Per giunta tassati al 26% (mentre la tassazione sui rendimenti da Btp è oggi meno della metà). Quindi stiamo parlando di 100 mila euro. Teniamo ben presente queste cifre perché, contrariamente a quanto sostiene l’Apsp, il paragone non va fatto con il rendimento di un titolo di Stato a tasso variabile. Il confronto va invece svolto con quanto fruttava l’investimento iniziale in titoli di Stato che erano, ripetiamolo, a lunga scadenza e a tassi fissi ultraconvenienti rispetto a quelli bassissimi proposti ora dal Tesoro. E vedremo più avanti che cosa questo significa (anzi: significava) in termini di rendimento annuo solo a titolo di stacco delle cedole semestrali. Anzi, diciamolo subito per soddisfare ogni curiosità: si trattava di una cifra di gran lunga superiore a quei 100 mila euro che frutta ora il deposito su conto corrente.

Il rendimento precedente. La vicenda è stata dettagliatamente raccontata dal Trentino tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. Siamo alla fine dell’estate del 2013, al momento dell’insediamento del nuovo cda dell’Apsp “Suor Agnese”: la presidente Fulvia Nervo e altri quattro componenti, tutti designati dal Comune di Castello Tesino e poi formalmente nominati dall’allora assessore provinciale alle politiche sociali (e ora presidente della giunta) Ugo Rossi. Una delle prime decisioni prese dai nuovi amministratori della “Suor Agnese” è appunto quella di portare subito all’incasso i Btp. Così la risposta a Fugatti: «A finire del 2013 si è effettuata la vendita di una parte dei titoli di stato (con importanti plusvalenze) e la dismissione di un portafoglio di azioni di minore entità che aveva perso molto del suo valore in passato e non dava sicure garanzie di mantenerlo per il futuro, il ricavato di queste vendite è stato investito in altri titoli di stato con durata mediamente più lunga per poter beneficiare di prezzi inferiori». Sgombriamo subito dal tavolo la questione delle azioni: si trattava di un pugno di titoli Eni, Intesa San Paolo, Mediobanca, Saipem e Telecom per un valore complessivo di mercato che, nel settembre 2013, si aggirava attorno ai 150 mila euro. Briciole insomma rispetto ai milioni del lascito investiti in Btp dal cda precedente. Ma veniamo al punto: quanto fruttavano quei titoli di Stato all’Apsp di Castello Tesino? Il ricavo dallo stacco delle cedole, se i Btp fossero stati mantenuti in portafoglio fino alla loro scadenza, ammontava a oltre 420 mila euro annui, in due tranche semestrali. Una cifra che la “Suor Agnese” avrebbe continuato a riscuotere fino al 2021, prima data di scadenza di una delle emissioni detenute. Ma anche dopo, e fino al 2026, il rendimento sarebbe stato di oltre 300 mila euro all’anno. Poi, con la progressiva scadenza dei vari Btp (l’ultimo portava la data di settembre 2040), la cifra sarebbe via via scemata. Ma a fronte di incassi complessivi ragguardevoli: solo fino al 2021 quasi 3 milioni di euro, più un altro milione e mezzo fino al 2026. Senza dimenticare che, via via al loro scadere, il valore d’acquisto delle singole emissioni sarebbe stato interamente rimborsato, senza la perdita di un solo euro per le casse dell’Apsp.

Le «importanti plusvalenze». Nella risposta a Fugatti si dà conto di una prima operazione di vendita, con il cui ricavato si è investito in altri titoli di Stato. Tutti però poi dismessi, pare di capire: «Ci si è trovati nuovamente di fronte alla scelta di patrimonializzare delle plusvalenze che non era detto che si mantenessero nel tempo - si legge - in coscienza si è deciso di metterle al sicuro evitando di perderle». Non è chiaramente così: fino a che non si decide di vendere un titolo le plusvalenze sono sempre solo potenziali, si può certo portarle all’incasso perdendo però così le cedole, quelle sì invece sicure conservando il titolo. Come sicura è l’assenza di minusvalenze, visto che alla sua scadenza il Btp garantisce il rimborso del prezzo d’acquisto. In generale, le plusvalenze vengono comunque definite «importanti» dall’Apsp. Che le quantifica così: «A fronte di rese del patrimonio degli anni precedenti al nostro insediamento che si aggiravano in media attorno ai 250 mila euro l’anno (ma al Trentino risultano cifre diverse, ndr), abbiamo assistito a rendimenti superiori agli 800 mila euro sia per il 2013 che per il 2014». Ma ancora una volta la nota della “Suor Agnese” mescola le carte in tavola. Rendimenti e plusvalenze non sono infatti la stessa cosa: per i Btp, mentre i primi sono costituiti delle cedole, i secondi derivano invece dalla vendita dei titoli sul mercato secondario se il prezzo è superiore a quello di acquisto. In questo caso è senz’altro accaduto, visto l’altissimo rendimento che i Btp fruttavano al loro possessore. L’Apsp mette invece tutto nello stesso mazzo. E si deve supporre che il milione e 600 mila euro complessivi del 2013-14 comprendano anche lo stacco delle cedole delle relative annualità (se non pure i ricavi dalla vendita delle azioni: anche questo è un punto non ancora chiarito). La plusvalenza vera e propria, dunque, va come minimo dimezzata. Ed è questa la cifra con cui si deve confrontare il mancato rendimento provocato dalla decisione di disfarsi dei titoli di Stato.

In altre parole: che cosa è superiore, la plusvalenza effettiva più i 100 mila euro annui frutto del deposito su conto corrente, oppure i rendimenti garantiti dallo stacco cedole, somme peraltro che si sarebbero potute reinvestire fruttuosamente (ovviamente non bloccandole in banca)? Ma soprattutto: quanto durerà l’immobilizzo di quei 13 milioni sul conto corrente? Perché quanto più a lungo si protrarrà, tanto più si allargherà il divario tra l’attuale rendimento e quello precedente. Sia chiaro: in materia finanziaria ogni scelta è opinabile, vista l’incertezza dei mercati. Ma è evidente che, per non rischiare di perderci nulla, il conferimento (legittimo) della gestione del patrimonio a una sgr sarebbe dovuto avvenire all’indomani della vendita dei Btp, senza far trascorrere un solo giorno: non più di un anno come invece sta accadendo. Ed è un punto che potrebbe appunto interessare la Corte dei conti. Sarebbe infine utile sapere sulla base di quali atti tracciabili, perché tali devono essere nel caso di un ente pubblico come l’Apsp (delibere del cda, determinazioni della presidente), e sulla base della consulenza di chi, è stato deciso di vendere i Btp. Sul sito della “Suor Agnese” non se ne trova traccia. È una questione che Fugatti non citava tra le proprie domande. Ma è lecito prevedere che possa essere oggetto di nuove interrogazioni.

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