«Giaco» spegne il forno niente più pane di Carzano

Il 31 gennaio Giacomo Dalfollo cessa l’attività di fornaio iniziata dal papà nel 1955 «Mi dedicherò al mio hobby: il laboratorio diventerà un museo di moto d’epoca»


di Marika Caumo


CARZANO. Con febbraio "el pan de Carzan", dopo quasi 60 anni, non entrerà più nelle case. Giacomo (per tutti Giaco) Dalfollo va ufficialmente in pensione e chiude bottega. La Valsugana perde così un pezzo di buon sapere artigiano.

Sessantacinque anni a marzo, classe 1948 dunque, Giaco ha iniziato a lavorare nel forno sotto casa all'età di 13 anni. Il forno è stato impiantato nel 1955 dal papà Pietro. A quei tempi infatti l'alternativa era andare all'estero. Ma perché aprì proprio un panificio? «Ce n'era uno per paese, in alcuni anche due o tre. A Carzano mancava», spiega Giaco, che ha un fratello gemello, Elia. Ma la scelta del padre su chi doveva aiutarlo in panificio cadde su di lui. «Uno doveva continuare a studiare, e lui era più bravo – precisa -. Se ero contento? Si, d'altro canto non ho avuto scelta. Il lavoro veniva prima di tutto, non c'era da dire mi piace o meno». Si cominciava alle 11 di sera per finire alle 11 del giorno dopo. I primi anni portava il pane con l'asino e il carretto a Carzano e Telve, accompagnato dall'amico "Germanin", ai Masi invece si andava col "cargozo". Poi fu acquistata una macchina per le consegne. Pian piano l'attività si espanse, si servivano i due negozi del paese, gli otto di Telve e via via fino a coprire dagli anni '90 tutta la valle, da Novaledo a Grigno, producendo fino a 5 quintali al giorno.

«Fino al '61 si faceva pane fresco anche la domenica, poi i negozi hanno chiuso quindi il sabato facevamo il pane doppio. Il sabato e le feste si lavorava giorno e notte», ricorda Giaco, che le prime ferie le ha fatte con la leva militare, nel '68. «Le seconde con il viaggio di nozze, in Sardegna, nel '74. Ma dal '90 mi sono concesso qualche weekend».

Attorno il profumo di pane, di buono, ci avvolge. La storia sta tutta dentro queste mura, le travi raccontano del panificio impiantato negli anni '50 e si distingue chiaramente l'ampliamento fatto nel '70 e quello ulteriore negli anni '90. Nel '91 Giacomo rilevò l'attività dal papà. Un lavoro duro, tutti i giorni, senza sosta. «Se è stato un sacrificio? No, il lavoro mi piaceva e la famiglia era qui». Già, la famiglia, la moglie Lory e i figli Giulia, Laura e Giovanni. «Con tre figli e un marito che lavora di notte non è stato facile, ma i momenti per stare insieme ci sono sempre stati, a pranzo mangiavamo tutti assieme», racconta Lory, anima gemella e preziosa collaboratrice. Poi i bimbi sono diventati grandi, hanno preso le loro strade, si sono fatti una famiglia. Anche Giovanni, che mentre studiava ha sempre lavorato con il padre, sabati e domeniche comprese, dopo la laurea ha scelto un altro campo. E pian piano è maturata la decisione di "tirare su le vele". All’inizio si pensava ad una società con i due dipendenti, «Ma poi si sono tirati indietro, forse spaventati dalla troppa burocrazia», spiega. Ora lo aspetta un'operazione al ginocchio e sei mesi di riabilitazione. «Poi potrò dedicarmi allo sci, alle moto e godermi la casa in montagna. Il panificio? Ne farò una mostra per le mie moto d'epoca», la butta li. Seduto vicino al grande forno, ci dice che non gli mancherà il suo lavoro, ma quando parla del pane, che è vivo e va coccolato, della soddisfazione di vederlo prendere vita da un sacco di farina, del lavoro creativo che sta dietro, gli occhi si illuminano.

«Ora però non c'è più la cultura del pane, oggi lo prendono, domani no. Fra reso e sconti, prendiamo la metà lorda del prezzo esposto - conclude -. Ora non si paga più la qualità, la grossa distribuzione punta sul prezzo, rimangono i panifici che si sono industrializzati e possono lavorare a costi inferiori, quelli artigianali chiudono. Lo farà Spera a fine anno, e anche Grigno». E lo fa Carzano, a fine gennaio. Ieri l'ultimo "pane doppio".

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