«Corsa a rettore, è un ateneo vivo Ma Trento insista sulla ricerca»

L’analisi di Schiera, professore emerito di Sociologia: «L’università sia il laboratorio dell’autonomia e coltivi il proprio territorio, la Provincia la valorizzi e non pretenda di egemonizzarla»


di Chiara Bert


TRENTO. «Trento riparta dalla grande intuizione di Bruno Kessler, se un ateneo fa ricerca di alto livello sul territorio, attrae studenti e bravi professori». È questo il consiglio di Pierangelo Schiera, professore emerito di Sociologia all’Università di Trento.

Professor Schiera, non è usuale una corsa a sei per il rettorato. Come valuta questo confronto tra tante proposte?

Vuol dire che c’è movimento. Il pericolo maggiore per l’università in italia, non solo a Trento, è che diventi un’istituzione silente. Ripensando al forte dibattito che c’è stato nell’ultimo anno sul nuovo statuto, con opposizioni da parte di facoltà e di gruppi, quando succedeva lo vedevo negativamente, mi sembrava che il comportamento del corpo istituzionale fosse un po’ offensivo. A posteriori devo dire che questa pluralità di contendenti oggi è un fatto molto positivo. Anche se ricordiamoci sempre che i candidati in campo non rappresentano solo ideali ma che dietro di loro ci sono legittimi interessi forti che stanno nelle facoltà.

Parlava del dibattito sullo statuto che ha visto un duro scontro dentro l’ateneo. Tutto ruota attorno al rapporto tra l’Università e la Provincia. Quali rischi vede per l’ateneo provincializzato?

Tantissimi anni fa, ai tempi di Bruno Kessler, io ero tra quelli che sostenevano la tesi che non bisognava mantenere una forte presenza provinciale. Vinse la strada della statizzazione dell’ateneo. Io credo che la strada giusta sia quella di valorizzare più che si può l’autonomia di cui il Trentino ha fatto una sua bandiera da sempre.

Cosa significa?

Tra le forze dell’autonomia trentina l’università rappresenta una forza fondamentale, al pari del movimento cooperativo. Serve un modello di autonomia che tenga in vita queste forze in rete, senza pretendere di egemonizzarle. Questo non è un elemento di chiusura ma di dialogo e di apertura. Fin da quando è nata nel Medioevo, l’univeritas è una comunità che si autoregola, che contiene in sè il concetto di autonomia. Vorrei che l’università fosse per la Provincia di Trento il laboratorio dell’autonomia, ovvero il luogo dove fare esperimenti e verifiche.

Sul nuovo statuto il corpo docente si è spaccato. Qual è il suo giudizio?

Non l’ho studiato bene. Ma da storico delle istituzioni sono dell’opinione che gli statuti hanno un significato relativo. Come diceva Napoleone sono chiffon de papier, dei pezzi di carta che si possono modificare e interpretare. Quello che contano sono gli uomini e le donne che operano nell’università e se in questo momento dovessi dare una mozione di cuore, la darei alla candidata donna, Daria de Pretis.

Si discute molto se l’università debba essere più locale o globale. Lei che ha una solida esperienza europea alle spalle, che opinione ha?

Oggi viviamo in un mondo globalizzato, è un dato di fatto. Meno ovvio è tener ferma la base locale, il territorio, che è l’unica scialuppa che ci consente di navigare nel mare della globalizzazione. Certo zappare la terra del territorio dove vivi è una sfida più difficile, ma è una sfida di identità.

I dati dicono che le iscrizioni all’università sono in calo, ma Trento è in controtendenza. Cosa serve all’università di Trento per migliorare la propria qualità?

Non bastano gli iscritti per essere più bravi degli altri. L’università è soprattutto il luogo dove si fa ricerca, che significa produrre innovazione e intelligenze. Quando Prodi e Kessler mi chiamarono a Trento, nel 1976, ho sempre avuto la possibilità di produrre alti livelli di ricerca. Questo è un patrimonio fondamentale su cui bisogna insistere. Trento è uno dei pochissimi casi in cui un piccolissimo territorio ha prodotto una fucina di ricerca in campi disparati, dalla storia alla fisica. Se hai una ricerca forte in loco, attrai più facilmente studenti e bravi professori. Questa è l’intuizione di Kessler che Trento non deve dimenticare.

©RIPRODUZIONE RISERVATA













Scuola & Ricerca

In primo piano