Il ritratto

Andrea Paternoster, apicoltore visionario e innovatore

Una giornata con l'apicoltore che ha creato "Mieli Thun". «Ora ho capito che ci sono mille verità»


di Paolo Mantovan


TRENTO. Il miele? No. Si dovrebbe dire “la miele”. «E d’altra parte - s’infervora subito Andrea Paternoster - non è un caso se nel nostro dialetto si dice “la mel”. E poi, pensa: la più grande poesia è di Federico Garcia Lorca, e inizia così:  “La miel es la palabra de Cristo”. Sì, la miel: è femmina».

Andrea Paternoster, classe 1966, due figlie, vive a Vigo di Ton sulla strada che porta a Castel Thun. Lì c’è il suo regno: l’azienda “Mieli Thun”, una decina di lavoratori. Il luogo dove prende vita una produzione di numerose varietà di mieli. «Perché, vedi, il miele non è mica zorro». Zorro? «Sì, io lo chiamo così. Lo zucchero bianco da cucina». Per esorcizzarlo? «Per non nominarlo. Zorro è bianco in tutto il mondo, è a basso prezzo, è senza fantasia ed è tiranno perché regala solo dolcezza». E il miele invece? «Il miele è connesso alla natura, all’ambiente, all’indisponibilità. Il miele regala profumi, aromi, consistenze, colori. Il miele non viene “munto” dalle api: è un pezzo di fiore che lo stacca da sé. Nella storia del miele c’è l’incontro fra il mondo vegetale e il mondo animale. C’è una storia straordinaria. Il miele è mille mieli. Come la verità: ci sono mille verità». Ah, spunta il filosofo. «Il cammino è lungo per tutti. Io a 50 anni compiuti, sorseggiando un vino naturale di Pantelleria mentre vedevo sorgere il sole a Cala dell’Elefante, in quel preciso istante ho capito che ci sono tante verità. Tantissime». Sofisticato. «No. Tutt’altro. Aperto. Aperto alle diverse verità. E quindi tollerante».

 

Paternoster, nome biblico e sguardo dritto e intenso, col miele non ci è nato, ma è stato subito folgorato dalle api. «È successo così. Ero studente all’Istituto agrario di San Michele, figlio unico, mio padre era agricoltore e aveva sei ettari di mele. Cosa avrei potuto fare? E io invece mi sono messo a studiare le api. Gli amici, quando videro che ero appassionato, mi presero in giro: “ah, bravo, adesso le api, e la prossima volta? i pipistrelli?”. Ma io non me la sono mica presa. Anche perché loro non avevano visto le api tornare sbronze di polline e nettare all’alveare. Loro non potevano capire. Io invece le avevo viste». E come sono, come sono? «Vieni, vieni con me. Andiamo all’alveare». E nel giardino Paternoster inizia a sussurrare alle api, le prende per mano, ci mostra le zampe, il loro sbandare per il carico di nettare e polline. «Vedi l’alveare? Ci sono 60 mila api: 55 mila sono operaie, 5 mila fuchi e poi un’ape regina. Bene, sono 135 milioni di anni che esiste l’ape ed è un animale sociale: non vive da sola. Non c’è l’Ape Maia dei cartoni animati, scordatela. L’alveare è un corpo unico, che detta anche i tempi all’ape regina, dove si trasmettono relazioni sociali, e dove la vita continua: è come una specie di animale infinito». Il filosofo ritorna. «Vedi, non c’è alcun apicoltore che si permetta di dire che conosce le api davvero. Ricordo il caso di un apicoltore dei Lessini che aveva preparato una grata per fermare il polline. Si chiese se l’alveare potesse soffrire o morire. In effetti la prima settimana ci furono grossi problemi, poi le cose migliorarono e dopo 4 settimane tutto andava come prima malgrado la grata». E quindi? «Era accaduto che le api facevano più piccole le palline di polline da trasportare e avevano imparato a passare dalla grata di traverso piegando l’ala, senza far cadere nulla. Pensa te».

Ma Paternoster come si è innamorato delle api? «Vederle così sbronze è stata per me una divinazione. Ho visto il volo delle api, ho iniziato a maneggiarle: facendo tanti disastri, eh! E lì ho capito che dovevo studiare e viaggiare se volevo che divenisse la mia professione. E sono diventato apicoltore nomade». Nomade? «Mio papà mi diceva “vagabondo”. Io preferisco nomade: ho alveari ovunque, in tutta Italia, tanti in pianura padana, tantissimi al Sud». Ah, ecco perché tanti mieli. «Certo».

Poi però bisogna fareun miele speciale, giusto? «Io ne faccio dai 15 ai 20 tipi diversi, dipendi dagli anni. Per esempio se hai 300-400 chili di albero del paradiso ma dall’analisi pollinica e organolettica non corrisponde al miele dell’albero del paradiso, nulla, non lo usi, e lo riversi in un “millefiori”. Perché devi essere rigoroso. È il rigore che serve. Ma io non ho inventato nulla: lo fanno i grandi vignaioli. la stessa cosa si deve fare nel miele».

E i mieli hanno delle diverse personalità? «Esatto. Ci sono quelli che definisco timidi, come il miele di Sulla, delicatissimo, non vuole rivelarsi. Poi ci sono quelli burberi, oppure quelli che danno confidenza». Qualche miele con un carattere particolarissimo? «Il miele di tarassaco. Ora ti faccio sentire». Paternoster prende un calice, versa dentro un cucchiaio abbondante di miele e poi lo spalma sulle pareti del bicchiere. «Adesso senti il profumo. Hai sentito? Bene. Ora prendi il cucchiaino e assaggia. Allora? Che ne dici? Ha doppia personalità. È dottor Jekyll e mister Hyde, non ti pare? Selvatico e aggressivo all’odore e poi così fresco, dolce e tendente alla camomilla in bocca...». Insomma, il miele è sorpresa, è un’avventura. «Ecco questo è il punto. Il miele è altro. E io voglio sdoganarlo da quell’idea del prodotto della nonna, che ti diceva “mangia il miele che fa bene”, vorrei toglierlo definitivamente dall’idea medicale, vetusta e bucolica, di quel barattolo tenuto là sotto, in fondo allo scaffale. Voglio portarlo con orgoglio nella bottiglia, come si fa con i vini di qualità. È un’idea fresca che entra in cucina e anche nel cocktail bar. Pensa che roba il miele: bevi il profumo di un fiore! Cosa vuoi di più». Ma per ridare orgoglio al miele Andrea Paternoster fa una vita da nomade. «Certo. In tutto ciò che vale occorre sacrificio».

Il momento che ha ripagato di mille sacrifici? «Quando sono stato accolto da Ferran Adrià, il grande chef spagnolo in Costa Brava, il superlativo innovatore, e mi ha fatto sentire 42 portate di piccoli assaggi e la maitre di sala mi ha detto: senta questo, si consuma al cucchiaio e deve affondarlo fino in fondo. Lì ho capito che c’era il miele, il miele che avevo prodotto io. È stato un regalo gigantesco, Il miele era nella cucina del più grande chef».

Poi però si deve vivere giorno per giorno, tra vittorie e sconfitte. Si inviano tanti barattoli di miele in giro per il mondo, negli Usa, ma ci sono annate difficili dove anche il meteo è bizzarro. «Certo. Ma hai la certezza di essere connesso con la natura, di stare dove le cose sono vere. Credo che le api mi abbiano convinto a viaggiare e andare in giro per il mondo. Ora capisco qualcosa di più della Val di Non». E non c’è la zeta di Zorro.













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