A Maso Cantanghel il gotha della tavola per festeggiare Lucia

Per i 50 anni di attività della cuoca, a Civezzano una festa con i manicaretti degli chef premiati dai tre gamberi


di Giorgio Dal Bosco ; di Giorgio Dal Bosco ; di Giorgio Dal Bosco


TRENTO. La notizia è che il 12 giugno prossimo a Civezzano alla Baita degli Alpini arriverà tutto il gotha della gastronomia italiana con chef, critici, ed editori specializzati per festeggiare le nozze d’oro con la cucina di Lucia Gius, la signora della trattoria del Maso Cantanghel. Cucinando ciascuno qualche “leccabaffi”, saranno ospiti d’onore le osterie e i ristoranti italiani premiati con i Tre Gamberi. Vi sarà una “tassa” d’ingresso di 25 euro che andranno a Emergency e al Punto d’Incontro di Don Dante.

Prego, signora, la sua carta d’identità.

Anni 64, trentina di Trento, figlia di un noneso, Mario, e di Alma, una primierotta trapiantata in Val di Non. Entrambi i genitori avevano alle spalle una tradizione e una passione per la cucina formidabili.

In quanto e quando?

In quanto mio padre abbandonato il suo alberghetto in via del Suffragio aveva comperato in Port’Aquila nel 1926 l’omonima trattoria, chiamata ufficialmente “Locanda con alloggio e stalla”.

Per onor di cronaca, quando è stata chiusa?

L’hanno chiusa mio fratello Guido e mia madre nel 1996 dopo è stato acquisito e restaurato per uffici.

Povera donna, sua madre, vedova dopo soli 15 anni.

Non si è scoraggiata e ha continuato a deliziare i trentini con i suoi piatti tipici della nostra cucina. Ore 10, ad esempio, trippe che, se servite troppo calde, venivano raffreddate dal cliente con un bicchiere di vino. Ma poi c’erano strangolapreti, - solitamente mangiati nelle case dei trentini e mai nei ristoranti - canederli, spezzatino, lucaniche e avanti così. I clienti più affezionati chiamavano mia madre la “signora Canederlo”.

Figli?

Maria Pia, Paola, Giovanna, Guido, io, e Chiara. Tutti bravissimi in cucina, ma nessuno, tranne la sottoscritta, ha voluto trasformare l’abilità in professionalità.

Lei, dunque, è stata il delfino di sua madre.

Ebbene sì. Io a 14 anni ho cominciato a lavorare accanto alle sottane di mia madre. In Port’Aquila ho lavorato fino al mio matrimonio con Piero. Assieme nel 1972 abbiamo aperto “Al Parol” a Mesiano.

Con qualche novità.

Siamo stati i primi a Trento ad introdurre il menù fisso, 7.000 lire a coppia, che veniva illustrato da mio marito che curava la piccola sala.

Tutto molto raffinato.

Ma non eravamo i soli a fare una cucina raffinata. Siamo obiettivi: c’erano anche il Chiesa e il Roma, ad esempio. Al Parol, ovviamente, nomen omen, non poteva mai mancare la polenta. Poi il trasferimento qui a Maso Cantanghel.

La famiglia?

Sono nati Mattia e Novella, bravissimi anche loro in cucina come le zie materne, ma bravissimi anche a dire no ad un futuro come ristoratori.

Peccato.

Facciano quello che preferiscono. Io amo come una pazza questo mio lavoro.

Con tante soddisfazioni.

Sì, ma attenzione. Al di là dei nomi altisonanti di alcuni miei clienti, Vissani, Gualtiero Marchesi e tanti altri, la mia più grande soddisfazione è quella di sentire qualche commensale grigio di capelli commentare: “Ah che bontà, mi sembra di essere tornato ai tavoli di Port’Aquila.”

Quando attaccherà al chiodo le padelle?

Mai

Non esageri.

Finché ho forza nelle braccia e gambe andrò avanti.

Ma si diverte proprio?

Sì, il mio è un hobby-professione.

Impastato di?

Senso dell’ospitalità.

Se nel piatto qualcuno fa la scarpetta si offende perché è un maleducato oppure si frega le mani per la soddisfazione?

Ma scherza? Mi frego le mani dalla soddisfazione. Lo ha fatto anche Vissani che, peraltro, mangia voracemente.

Quando la trattoria chiuderà come sarà il necrologio che darà alle stampe?

Nessun necrologio. Morirò prima io e allora, se proprio vuol sapere, il mio di necrologio sarà: “Pardon, vado a fare la polenta in paradiso”.

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