storie trentine

1976, quando Riva tremò all’alba

Alle 6 e 24 del 13 dicembre la città si riversò in strada. Nessun ferito, ma ci furono centinaia di sfollati in centro storico


di Cesare Guardini


RIVA. La santa con l'asinello ormai scarico ma stanco del lungo trottare nel buio aveva quasi finito di percorrere in salita la strada “longa e streta” verso il suo cielo, i bambini consumavano vicino ai nuovissimi regali gli ultimi scampoli del sonno, in qualche cucina era già accesa la luce, ad oriente, fra il Creino ed i prati di Nago, il nero della notte resisteva ad un'alba stentata, scialba. Quando sul cronometro dell'osservatorio geofisico di Trieste la lancetta è arrivata ad ore 6, minuti 24 e secondi 39, la terra ha dato uno scossone violento, come una botta all'insù per ricadere subito dopo, scrollando i muri e le torri, le case -soprattutto piani alti e sottotetti- hanno scricchiolato, nelle credenze piatti impilati hanno battuto contro bicchieri e tazzine, i lampadari facevano pendolo a confermare agli occhi straniti la realtà del terremoto.

Qualcuno è sceso in strada, ancora in pigiama e solo un paio di coperte arraffate in fretta sulle spalle a cercar di coprire i bambini dal freddo, qualcuno chiuso in macchina. In tutti, fra paura e la brutta sensazione d'una assoluta impotenza, la stessa domanda: e adesso? Man a mano che schiariva, la città s'è rimessa in movimento. Niente crolli, nessun ferito, qua e là qualche calcinaccio, cornicioni, camini crollati. Le crepe si vedevano dentro le case nelle stanze d'angolo fra i muri portanti e pareti divisorie. Il primo giornale radio nazionale aveva dato la notizia, annunciando danni. La giunta (ne facevano parte, oltre al sindaco ed al suo vice, Umberto Benaglio, Carlo Moderna, Antonio Osele, Serena Antonioli e Giuseppe Nicolli) era stata convocata d'urgenza per la stessa mattina del lunedì dal vice Enzo Macrì (previo contatto col sindaco Franco Odorizzi, che abitava a Trento) per decidere il da farsi.

Fabio Odorizzi, consigliere comunale e presidente del consiglio d'Istituto al Maffei, ha cominciato proprio dal liceo a verificare le condizioni degli edifici scolastici. Entro sera il primo bilancio: niente di tragico, ma situazione pesante: scuole chiuse fino a nuovo ordine (sarebbero riprese il venerdì 17), squadre di due tecnici (moltissimi i privati che si sono messi a disposizione, anche da fuori Busa) a verificare le condizioni degli edifici. La botta più secca alle scuole: kaputt la sede dei geometri in viale Pilati (nell'edificio delle vecchie commerciali per guadagnare lo spazio sufficiente alla palestra nell'interrato avevano tagliato ed asportato un muro di spina); kaputt la Damiano Chiesa ospitata nel vecchio molino Pederzini all'angolo fra i viali Chiesa e Pernici: al preside Giacca toccò la regia del trasferimento alla Colonia Pavese durato fino al completamento della nuova sede prefabbricata dov'è tuttora; alle Sighele aveva tenuto senza problemi la parte nuova (l'attuale media del conservatorio su via Baruffaldi) e ceduto soprattutto ai piani alti la metà nel convento (la vicinanza delle due scuole medie, giudicata eccessiva anche in Provincia, portò poi alla decisione di costruire anche la nuova Sighele, ma al Due Giugno). Chiuse la parrocchiale di Santa Maria Assunta, la Rocca, il Giardino d'Infanzia ed il Municipio (il consiglio comunale andò peregrino in sedi di fortuna; memorabile la serata in una palestra tanto gelida da suggerire a due consiglieri di provvedere qualche fiasco di vino per il brulè, provocando la fiera opposizione del segretario Scarezzati).

Nel settore privato problemi maggiori nel vecchio centro, in edifici che non avevano mai goduto di particolare manutenzione: via Disciplini e via Concordia, i vicoli del Torchio e Fabbri, la via Lipella col suo muro del pianto, erano una selva di pali di sostegno incastrati di traverso a puntellare le facciate: una variazione al bilancio di previsione permise di coprire la sessantina di milioni necessari per pagarli. Il successivo piano del centro storico permise all'architetto Odorizzi di darne una ragione: le case erano state costruite, secoli prima, partendo dalla strada, sicchè i muri di sostegno erano quelli ortogonali alla strada stessa, e le facciate tirate su in seguito, a tamponare. Alla fine dei sopralluoghi risultò che una sessantina di edifici presentavano lesioni serie, due/tre mesi di lavoro di un'impresa, mentre una ventina erano proprio da rifare.

Il terremoto ebbe due conseguenze nel centro storico: sulle persone e sulle case. Due/trecento residenti furono sfollati: quelli che non potevano arrangiarsi (altre residenze, o parenti) nell'immediato vennero sistemati nei residence ed in alberghi vuoti, sollevando qualche problema perché l' irrinunciabile Expo Schuh di gennaio, oltre che al palacongressi -del tutto integro- aveva bisogno anche di spazi esterni, sia per espositori che per gli ospiti. Il problema della casa -ricordano Paolo Tonelli e Rosanna Sega, fra i più attivi nel cercare soluzioni- provocò nell'immediato l'accelerazione da parte dell'Itea della costruzione del primo grande condominio in via Primo Maggio, nel quale trovarono sistemazione la maggioranza degli esiliati dal centro (mantenendo un grado di socializzazione, forse per la comune provenienza, unico nei “casoni”) e nel medio termine la scelta dell'Itea -inizialmente attiva solo nelle nuove costruzioni- di intervenire anche nella ristrutturazione di edifici esistenti: scelta che contribuì non poco a salvare dallo spopolamento i centri storici in tutta la provincia. Per quel che riguarda gli edifici, il terremoto, e la successiva necessità di ricostruire, spinse l'imprenditoria privata ad intervenire nel centro. Sparirono così i due appartamenti per piano, a misura di famiglia piena di bambini ma col gabinetto sul giroscale, sostituiti dai mono/bilocali, spesso seconde case per quel tipo di turismo che avrebbe segnato il mercato immobiliare almeno per i due decenni successivi.













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