Giorno del ricordo

L’esodo da Fiume, i lavori forzati, il ritorno in Tesino: la storia di Ettore Rippa

Prigioniero per 15 anni nel campo di concentramento dei partigiani titini, tornò con la famiglia a Pieve da dove era partito 40 anni prima. Il nipote Augusto gli ha dedicato una targa su quella che fu la casa di famiglia


Fabio Peterlongo


TRENTO. Correva l’anno 1945, nei primi giorni di maggio i combattenti comunisti jugoslavi occupano la città di Fiume, mentre completano la presa dell’Istria e della Dalmazia, fino ad allora parte del Regno d’Italia. I partigiani titini scacciano gli italiani dalle loro case, confiscando tutte le proprietà ed attuando un’autentica pulizia etnica con l’obiettivo di edificare una nuova “patria” jugoslava: avrebbero “riempito” quelle terre svuotate dagli italiani facendovi affluire popolazioni slave meridionali (serbi, bosniaci, kosovari, macedoni), oltre a sloveni e croati già presenti in Istria come minoranze storiche.

Settantasei anni dopo, il 28 ottobre del 2021, il medico trentino Augusto Rippa-Christi si è reso artefice di un gesto simbolico volto a rivendicare un pezzo della sua storia familiare, frammento della grande tragedia spesso dimenticata o sottaciuta degli esuli fiumani, istriani e dalmati. Nottetempo ha apposto una targa commemorativa sul muro di cinta della casa che fu di suo nonno Ettore, l’elegante Villa Rippa.

Ettore Rippa fu prigioniero a Maribor, poi “graziato” dalle autorità jugoslave e costretto a tornare con tutta la famiglia a Pieve Tesino da dove era partito quarant’anni prima. La targa recita: «Qui abitava Ettore Rippa - nato 1884 - con Anna Milcenich dal 1905 al 1945 - Qui nacquero i loro figli - Rino 1905 - Linda 1907 - Italo 1909 - Anita 1913. Il nipote Augusto pose addì 2021». Il dottor Augusto Rippa-Christi, nato a Pieve Tesino nel 1946 ovvero quando la sua famiglia aveva appena compiuto il doloroso ritorno, ricopre oggi il ruolo di presidente del Movimento Nazionale Istria Fiume Dalmazia si dice fiducioso che il suo gesto sarà imitato da molti esuli: «Ho ricevuto commenti molto positivi, sia in Italia sia da parte dei numerosi italiani ancora presenti a Fiume e nei territori istriani e dalmati. Ma non tutti gli italiani che rimasero nella loro terra durante il grande esodo, i cosiddetti “rimasti”, apprezzano le iniziative di noi esuli: spesso i “rimasti” si sono “jugoslavizzati” per quieto vivere e forse pensano che smuoviamo troppo le acque».

Dottor Rippa-Christi, prima dell’esodo iniziato nel 1945, quanto era numerosa la presenza italiana a Fiume?

Fiume era abitata in larga parte da italiani. Alla fine della Seconda guerra mondiale contava oltre 40mila italiani su 60mila abitanti. Lo stesso valeva per l’Istria e la Dalmazia fino ad allora parte del Regno d’Italia, con 350mila italiani su 500mila abitanti in tutta la regione. L'italianità di queste terre è più che millenaria, precede di gran lunga l'unificazione nazionale.

Quanti italiani resistettero all’esodo?

Gli italiani che non lasciarono mai Fiume, che chiamiamo appunto i “rimasti”, oggi sono 9mila su 110mila abitanti e nell’intera Istria e Dalmazia gli italiani sono circa 30mila. In parte sono rimasti per necessità, perché troppo vecchi o spaventati dal dover affrontare le incognite dell’esodo e cambiare radicalmente vita in Italia. Altri sono rimasti perché credevano nel “paradiso” di Tito. Ed esistono ancora oggi dei nostalgici del periodo titino, più o meno come esistono i nostalgici degli Asburgo in Trentino-Alto Adige.

La sua famiglia era originaria di Pieve Tesino e lì tornaste in seguito all’espulsione da Fiume. Come ci finì suo nonno in riva all’Adriatico?

Io sono trentino di nascita, perché figlio di esuli. La mia famiglia poté evitare di finire in uno dei 109 campi di raccolta profughi aperti in Italia per accogliere gli esuli istriani, perché tornammo in Trentino dal quale il nonno Ettore era partito a fine Ottocento, quando si trasferì a Fiume per aiutare lo zio Paolo, ottico “pertegante” che aveva acquistato il negozio di ottica di un’altra famiglia del Tesino, gli Avanzo. Era infatti una pratica abbastanza frequente lo spostarsi per lavoro attraverso i territori del vecchio impero asburgico, come oggi ci si sposta attraverso le frontiere dell’Unione Europea. Alla morte dello zio, il nonno divenne il proprietario dell’Ottica Rippa, mise su famiglia e sempre a Fiume nel 1909 nasceva mio padre, Italo. Il nome di mio padre fu scelto per riaffermare il credo irredentista della famiglia.

Che persona era suo nonno Ettore?

Nonno Ettore era coinvolto nella politica e nell’attivismo sociale. Aveva ricoperto varie cariche politiche, tra cui il ruolo di vice-podestà, e svolgeva numerose opere filantropiche ed assistenziali. Dopo l’annessione di Fiume alla Jugoslavia avvenuta i primi di maggio del 1945, nonno Ettore fu condannato a quindici anni di lavori forzati nel campo di concentramento di Maribor. Ma la sua fama di uomo buono era così conosciuta che furono gli stessi comunisti italiani rimasti a Fiume a firmare una petizione in cui chiedevano la sua liberazione dalla prigionia. La petizione fu indirizzata al maresciallo Tito in persona ed ebbe come effetto la liberazione di nonno Ettore, dopo quindici mesi di prigionia. Quell’esperienza però l’aveva trasformato: era talmente dimagrito per gli stenti e la fatica che era diventato irriconoscibile persino dai suoi stessi figli.

E la casa che fine fece?

Il 3 maggio 1945 arrivavano i cosiddetti “liberatori” jugoslavi, i quali però confondevano italianità e fascismo. Furono anche i giorni dei primi infoibamenti. Il 4 maggio furono pubblicate le liste di proscrizione degli italiani da perseguitare: quella lista conteneva anche il nome di mio nonno. Così la sua casa fu confiscata, quella stessa casa che lui aveva costruito nel 1905. E non solo la sua, anche la casa di mio padre, in quel periodo medico-chirurgo in guerra, fece la stessa fine. Nel momento in cui nonno Ettore tornò dal campo di Maribor, trovò la casa occupata da quattro famiglie di altrettanti partigiani jugoslavi. Gli occupanti erano tutti di diverse etnie: bosniaci, croati, macedoni… Tito ebbe la grande intelligenza politica di far sostituire gli abitanti italiani da persone provenienti dalle diverse etnie jugoslave, in modo da plasmare un'identità nazionale e non solo serbo-croata.

Veniamo al presente. Come è riuscito ad apporre la targa sul muro della casa di suo nonno?

Da un anno inviavo richieste scritte al Comune di Fiume per ottenere l’autorizzazione ad installare una pietra di inciampo nel selciato della strada pubblica di fronte alla casa del nonno, sul modello di quelle realizzate dalle comunità ebraiche e che commemorano le case dei deportati. Il Comune latita, tergiversa, allora scrivo loro: “Io la targa la attacco, se non riceverò una vostra risposta interpreterò il silenzio come un tacito assenso”. Così la notte del 28 ottobre vado per installare la targa. La volevo installare a terra, sul selciato, ma non riesco, il pavimento è troppo duro. Così, provo a attaccarla sul muro di cinta della casa, ma suona l’allarme. L’inquilino, che mi conosce, mi invita a tornare l’indomani. Il giorno dopo trovo la polizia già sul posto. Ma l’inquilino persuade i poliziotti a non compiere azioni verso di me, in quanto i proprietari della casa - e del muro di cinta - stavano ragionando sul da farsi e non escludevano la possibilità di dare il via libera all’installazione. Poi, dopo una riunione, i proprietari danno il nulla osta all'installazione della targa, in cambio di una bella somma di denaro.

Che eco ha avuto la sua iniziativa all’interno della comunità italiana?

Questa mia iniziativa personale ha avuto una risonanza enorme nella comunità italiana di Fiume, Istria e Dalmazia, ho ricevuto tantissimi consensi ed alcuni si sono ripromessi di ripetere questo gesto. Rimane però un po' di prudenza da parte degli italiani “jugoslavizzati”, i cosiddetti “rimasti”, spesso attivi nell’associazionismo locale volto alla promozione della cultura italiana, i quali vedono l'attivismo di noi esuli un po' come fumo negli occhi. Forse hanno il timore che smuoviamo troppo le acque.













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