LA STORIA

Da Bolzano alla luna, l’incredibile vita di Romeo Zuech, lo «zio dei missili» 

Il personaggio. Dopo gli studi alle Iti e il lavoro sicuro alla Lancia, la decisione di emigrare negli Stati Uniti nel 1950. Una carriera fulminea che lo ha portato ad inventare una lega in grado di reggere le alte temperature dei motori per i missili delle missioni Apollo


Alessandro Zuech*


Bolzano. La mia generazione s’è persa la luna. Per un soffio. Ero poco più di un neonato quando Gene Cernan lasciava sul suolo lunare l’ultima traccia della nostra presenza, non pensando nemmeno lontanamente che nei successivi 50 anni nessuno avrebbe più ripetuto quel gesto. Figlio di un coraggio e di una volontà di sfidare l’ignoto che non ci appartengono più. Se l’è persa ma ha fatto in tempo a viverla perlomeno nei sogni di un bambino. Nel cortile delle affollate elementari Longon, negli anni 70, eravamo in molti a voler ‘fare da grandi’ l’astronauta. E durante le lezioni della sezione H, io avevo anche qualcosa da mostrare e raccontare. In un’epoca dove la rete riportava solo al calcio, l’interesse era assoluto e non volava una mosca.

Oltre ad avere lo “zio in America”, avevo addirittura lo “zio dei missili in America”! I missili, che ci riportavano subito alle puntate di Goldrake o, per qualcuno un po' più grandicello, a Spazio 1999. Quelli che costruivamo con i mattoncini di lego sicuri che prima o poi, noi futuri astronauti, avremmo usato per andare nello spazio.

Lo zio veniva a trovarci tutti gli anni, e tutti gli anni era una nuova storia. Una nuova medaglietta, un badge di missione, un piccolo scarto di produzione. Tutto regolarmente riportato, non senza enfasi, a tanti ragazzini cui la luna sembrava di toccarla.

Ma parliamo un po' di lui. Romeo Zuech. Anche perché la sua storia è perlomeno agli inizi anche la storia dei sogni e delle pulsioni che attraversavano una generazione di giovani della nostra città, Bolzano, che dopo gli orrori di una terribile guerra voleva riscattarsi. Classe 1926, nato a Brez in Val di Non, ha frequentato durante il conflitto un istituto tecnico industriale (quello di via Cadorna) nuovo di zecca alternando durante i primi anni i libri al fucile nei boschi del trentino. Da partigiano, cosa di cui andava fiero e che gli avrebbe permesso di ottenere più avanti credito in un paese straniero durante un’epoca dove queste cose contavano.

Finiti gli studi è la volta dello stabilimento Lancia di Bolzano, dove finivano molti dei diplomati di un istituto che da questa è stato all’inizio finanziato. Prime esperienze con la metallurgia, a contatto con ingegneri che durante il conflitto rischiavano la vita calcolando l’esatto ammontare di sabbia da aggiungere al metallo per far grippare dopo qualche migliaio di chilometri i motori dei camion destinati alla Wehrmacht.

Ma aveva un sogno, Romeo. Lui, figlio di ex emigranti (mia nonna era nata in Messico da famiglia trentina e mio nonno a Kansas City negli States), sognava l’America. Gliela avevano raccontata, come a me, da piccolo e allora non esistevano le green cards. L’apparente incoscienza di lasciare un posto sicuro in una grande industria di un’Italia per affrontare l’ignoto.

L’America

Arrivò a Chicago nel 1950, ospitato da un altro zio, con qualche soldo in tasca e senza conoscere una parola di inglese. Erano anni tumultuosi di lotte sindacali e lì le industrie non vedevano di buon occhio neo-immigrati con la valigia di cartone forieri di guai. E un metallurgista che non riesce a presenziare una riunione a causa della lingua non era il massimo dell’appeal… La scelta però era fatta e non si poteva certo tornare indietro da sconfitti: tre lunghi anni di vanga, badile e piaghe sulle mani a scavare buche per conto impresari più o meno affidabili della città finché un po' di ‘itanglish’ è saltato fuori. E da qui la prima assunzione in fonderia.

Le scuole italiane, allora, erano molto valide soprattutto se confrontate con quelle oltre oceano. La carriera è stata rapida, del resto gli States sono da sempre terra di opportunità. Sposata una bella ragazza figlia di immigrati siciliani ed acquistata l’immancabile Alfa Romeo, è la volta di Los Angeles in una fonderia di maggiori dimensioni. Siamo in piena guerra fredda e l’industria militare raggiunge picchi che forse non toccherà mai più. La supremazia strategica passava attraverso vettori in grado di sganciare bombe atomiche nel più breve tempo possibile. I russi rincorrevano. Avevano appena finito di clonare quello che è stato il più costoso sforzo tecnologico militare americano della seconda guerra, il bombardiere da alta quota B-29 tristemente famoso per i fatti di Hiroshima e Nagasaki, quando uscì il B-52. Nel breve termine, realizzazione a prova di clone.

Si ricordarono però di aver evitato il gulag ad un folto gruppo di progettisti missilistici tedeschi di Peenemünde e ad un russo, genio della materia, di nome Sergej orolëv. Missili veri, in grado di compiacere il dottor Stranamore e di trasformare i B-52 in inutili nonché costose bare in alluminio, ne arrivarono subito a centinaia insieme al primo satellite. Alla povera cagnetta e al primo uomo nello spazio. E’ storia nota. Negli USA reagirono senza perdersi d’animo. Nelle industrie militari vennero pompati milioni di dollari.Una di queste, la North American, aveva aperto nel ’55 la propria divisione Rocketdyne specializzata nella progettazione e nella produzione di motori a razzo per vettori missilistici militari. Il problema era la manodopera, soprattutto quella qualificata. La fonderia di L.A. dove lavorava lo zio era ancora troppo piccola per gli standard militari: presa in mano la direzione tecnica, Romeo fu in grado di riprogettare i metodi produttivi sulla base di quanto aveva visto fare in Lancia permettendole di ricevere la prima commessa dall’USAF. La Rocketdyne se ne accorse, e come una qualsiasi odierna corporation del settore tecnologico decise di acquistarne l’intera proprietà. Grazie a Korolëv e a Gagarin la sfida era ora lo spazio. Von Braun sognava e teorizzava un razzo gigantesco in grado di spingere un carico da 50 tonnellate dalla terra fino all’orbita lunare. Per farlo erano necessarie al decollo altre 2.300t fra hardware e carburante per superare la resistenza della gravità terrestre.

I missili per lo spazio

Per spingere questo enorme peso, il primo stadio del missile che venne realizzato per conto della NASA fu dotato di 5 motori a razzo progettati e prodotti dalla Rocketdyne denominati F-1. Questi motori consumavano singolarmente qualcosa come 970 litri di kerosene al secondo. La velocità di rotazione delle turbine, in presa diretta, era pari a 5500 giri/min e la loro temperatura di funzionamento variava dai -180 gradi dell’ossigeno agli 820 gradi del gas di azionamento. Date le dimensioni, per contenere al massimo l’inerzia il peso delle turbopompe doveva essere ridotto al minimo. La lega metallica con cui dovevano essere realizzate doveva quindi soddisfare tutti questi requisiti e fino al 1959 non esisteva. Quelle conosciute o risultavano troppo pesanti o non resistevano a sufficienza alle dilatazioni dovute alle estreme sollecitazioni termiche durante il funzionamento delle pompe.

La missione apollo

Fu lo zio ad inventarla per conto della Rocketdyne e a brevettarla successivamente nel 1968. Venne di seguito utilizzata per produrre le turbopompe dei motori a razzo F-1 e J-2 dei primi due stadi del missile SATURN V utilizzato in 10 missioni Apollo con equipaggio, inclusa la storica 11 dell’allunaggio di cui oggi festeggiamo il 50esimo, una missione Apollo-Soyouz congiunta con l’agenzia spaziale russa e le tre Skylab. Fu inoltre riutilizzata nei motori principali dello Space Shuttle e in diversi razzi dell’agenzia spaziale europea, ente a cui lo zio fornì consulenza negli anni ’80 prima o dopo le sue visite estive a Bolzano.

Romeo Zuech non amava i computer in quanto pensava, forse non a torto, che limitassero l’inventiva per cui gli anni ’90, decennio nel quale gran parte dei metodi di progettazione venivano assistiti o realizzati attraverso l’informatica, decise di dedicarsi ad altro. Qualcosa di diverso, ma non troppo: la produzione di vini nella sua California. Cambiano prodotto e materiali, ma principio e metodo scientifico rimane in fondo lo stesso. Mi descrisse bene il concetto alcuni anni fa quando mi porse un libricino di ricette di Supe (minestre) nonese da lui preparato, che ancora conservo. La sua produzione vinicola è sempre rimasta limitata, ma molti vini di livello delle “wine region” californiane prodotti da brand ormai noti portano la sua firma o il suo contributo. È stato il primo a portare lì dall’Alto Adige la produzione del Lagrein, oggi sempre più diffuso ed apprezzato in molti ristoranti di San Francisco.

Se ne è andato, dopo una vita certamente non comune, due anni fa. Ricordo come fosse ieri i suoi ex colleghi di Nasa e Rocketdyne al suo capezzale, come usciti incredibilmente da un film di Ron Howard o Damien Chazelle: penna e regolo nel taschino della camicia, occhiali spessi e immancabile riporto. Ed è in questi giorni, dove ricordiamo l’opera cui teneva di più, che ho deciso di estendere a tutti parte dei miei ricordi di una vita.

God said, Let there be light: and there was light. Have a nice trip, zio.

*nipote di Romeo Zuech













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