Le donne uccise e le parole da ritrovare



Non ci sono parole. Spesso la società, nel suo complesso, se la cava così. Di fronte a un delitto. Di fronte a un lutto. Di fronte a fatti della vita e della morte che invece di parole hanno bisogno. Le parole possono piacere. O possono risultare abrasive, quasi intollerabili. Ma sono necessarie. Il nostro quotidiano compito è quello di trovarle, le parole. Per parlare della giovane mamma Barbara Rauch e di chi l’ha uccisa ad Appiano un anno fa, ad esempio. Per parlare di Deborah Saltori, uccisa dal marito Lorenzo Cattoni a Cortesano. Per fare domande a chi forse avrebbe potuto fare qualcosa per fermare l’assassino. Per chiedere alla società perché si debba sempre chiedere aiuto a Garcia Marquez, definendo «annunciata» ogni tragedia. Sarebbe bello scrivere tragedia evitata, tragedia sventata. Ma la cronaca è inclemente come la vita che racconta. Arriva dopo, purtroppo. Perché il compito di arrivare prima spetta ad altri: servizi sociali, tribunali, amici, conoscenti, famiglie, parrocchie, associazioni... L’elenco è lunghissimo. È la rete sfilacciata di una società smarrita. Le violenze sono antiche e i femminicidi hanno solo cambiato nome: prima si chiamavano omicidi, perché il vocabolario non faceva distinzioni di genere e perché la cultura del tempo prevedeva che anche il delitto riguardasse solo gli uomini. Ma la società non è più quella dell’epoca della pietra. L’emergenza culturale e sociale, l’emergenza educativa, non possono essere quelle di duemila anni fa. La politica deve trovare risposte a domande sempre più complesse. Aprendo laboratori, avviando progetti, andando al di là di leggi che spesso restano solo nei codici. L’avvocata Annelise Filz, ribadendo che non si tratta quasi mai di fulmini a ciel sereno, nei giorni scorsi ha dichiarato che certe cose vanno spiegate e insegnate all’asilo, alle bimbe e ai bimbi. La professoressa Barbara Poggio, prorettrice dell’Università di Trento, ha parlato della violenza sulle donne come d’una malattia sociale, «frutto di una cultura tossica, che fatica a superare un’idea di forte asimmetria tra generi». Entrambe sostengono che sia necessario lavorare molto sulle donne: «Bisogna che vengano fortificate nella loro autostima, che capiscano che non va accettato niente» (Filz). «Bisognerebbe dare strumenti alle ragazze per riconoscere certi comportamenti, serve lavorare per costruire relazioni sane, per far capire cosa non si può tollerare» (Poggio). «I femminicidi - ha detto ancora la psicologa Roberta Bommassar - sono legati al tentativo delle donne di liberarsi dalle loro catene, una situazione che si scontra con uomini molto deboli e fragili. Ogni femminicidio porta un fallimento della società e dell’uomo». Ebbene, sulla società si può e si deve lavorare. Ed è anche su questo terreno che questo territorio può dimostrare il valore dell’autonomia come luogo di sperimentazione virtuosa. Partiamo davvero (anche) dagli asili. Partiamo dai piccoli. Facciamo in modo che ad essere annunciate non siano le tragedie ma le rivoluzioni culturali.













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