La tragedia di Stava, 35 anni fa



Un tempo disabitato. In una geografia sconosciuta. Un tempo fatto di fango. Di una strana argilla. Di un grigio irreale. Come l’odore nell’aria. Come l’assenza di vita che arrivava dopo il rumore dell’allegria e il sapore delle vacanze e prima dell’urlo di sirene e sirene, del frastuono degli elicotteri. Le vite - 268, scopriremo poi - il bosco, le case, gli alberghi: tutto portato via dalla violenza dell’acqua. Dall’impeto assassino di quella gigantesca massa piena di fluorite e di superficialità umana. Stava è sparita in pochi attimi: come un gigantesco castello di sabbia sbriciolato dalla prima onda del mare.

Negli occhi ho ancora silenzi e rumori, declinati al plurale: perché tutti diversi, nuovi, assurdi, persino inconcepibili. Ed è tutto in bianco e nero. Perché per trovare un po’ di colore, quel 19 luglio del 1985 che per tutti noi è uno spartiacque fra un prima e un dopo, mi sono arrampicato nella parte viva del bosco, quella risparmiata dallo schiaffo del gigante del terrore.

A pochi passi da quell’immensa spianata grigia, c’era ancora il verde, c’erano alberi e case. E quelle matite colorate strappate alle dita o allo zaino di qualche bambino, sparse fra le radici. Unico segno di vita. Penso che molti altoatesini abbiano una Stava nel cuore. La Stava di prima, che s’attraversava velocemente per andare a sciare a Pampeago (o verso gli Oclini e Lavazè), senza sapere dell’esistenza di una miniera, di bacini di decantazione, di una bomba appesa da anni al filo dell’incoscienza. La Stava della tragedia: una ferita profonda che a molti ha portato via vite, affetti, storie, ricordi e ad altri ha portato via l’innocenza, perché quel 19 luglio è morta un’idea di territorio e ne è nata un’altra, attenta all’ambiente, allo sviluppo sostenibile; quella della protezione civile e della solidarietà; quella della voglia di ricostruire. Quella della sete di giustizia. Quella del «mai più».

Poi c’è la Stava di oggi: un prato verde simile a uno sconfinato tappeto che nasconde tutto, ma non la memoria. Anche se c’è il rischio che insieme alle persone - 35 anni dopo - muoia lentamente anche il ricordo. Luca Zorzi, che aveva un anno nell’85 e che scelse di fare il geologo «perché ho Stava nel sangue», parla di mix di avidità, di mancanza di competenza e di etica. A lui, che quel giorno perse sette parenti, bastano tre parole per spiegare ciò che nemmeno i tribunali hanno saputo spiegare: come l’umanità possa chiudere gli occhi di fronte all’idea di arricchirsi a qualunque prezzo.













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