Con Fatima, l'ennesima donna uccisa, nel cimitero del dolore



Il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, ha parlato di «emergenza nazionale». E tutti hanno pensato a questo coronavirus che non ha ancora attaccato i nostri corpi, ma che ha già ferito la nostra immaginazione, rendendo i nostri pensieri vulnerabili più dei nostri corpi. 

Ma in realtà - anche se in questi giorni ognuno di noi vede ovunque il fantasma di un male globale - lui parlava della violenza contro le donne. Dell’atroce bilancio che ogni giorno fa sprofondare nell’abisso una società incapace di cambiare, un’Italia che di giorno legifera e inasprisce le pene e di sera conta le morte: 103 nel 2019. Una ogni tre giorni e qualche ora. E a pochi passi dalla gelida e mostruosa statistica che disegna un cimitero al quale continuano ad aggiungersi croci, accanto a esistenze frantumate e a sogni dilaniati, c’è l’invisibile sentiero del dolore: un vicolo cieco di violenze fisiche e psicologiche. Tumefazioni e lesioni che non guariscono mai. Che non arrivano in prima pagina. Né in questura, in qualche caserma dei carabinieri o in tribunale. Ci sono infatti case trasformate in prigioni senza vie d’uscita. Non le abitano i carnefici, che le frequentano anzi per poche ore. Ma le vittime: che vivono (vivono?) spesso segregate in un territorio tappezzato con la stoffa del terrore. Come Fatima Zeeshan, uccisa a 28 anni a Versciaco insieme alla creatura di otto mesi che portava in grembo. Quasi nessuno, in zona, ricorda il suo volto. Nell’epoca dell’immagine e dei selfie, si fatica persino a trovare una sua fotografia: perché Fatima non usciva quasi mai di casa. Perché non le era permesso. Da un uomo che probabilmente - anche se i processi non si fanno sui giornali - non conosceva l’alfabeto dell’amore (parola che non dobbiamo usare, perché in queste vicende l’amore non c’è), ma solo quello del possesso. Come se chi ci sta accanto fosse un oggetto, una farfalla da far volare o da schiacciare a nostro piacimento.

Fatima ha persino faticato a trovare uno spazio nei telegiornali nazionali: perché in poche ore ci sono stati altri quattro femminicidi. Donne diversissime fra loro. Accomunate solo dall’odio di chi le ha uccise. Dal sangue che per un giorno riempie le cronache per poi raggrumarsi nella normalità. Quasi fosse una consuetudine. Michela Marzano scrive che siamo di fronte a un problema strutturale della nostra società. Serve prevenzione, aggiunge. Da uomo, mi sento di lanciare un appello. Alle mogli. Alle sorelle. Alle madri. Alle amiche. A chi ci vede da vicino o a chi ci osserva da lontano. Crescete uomini diversi, prendeteci per mano quando ancora possiamo capire che il mondo non è azzurro o rosa, forte o debole, rude o delicato. Insegnateci a vivere. Insegnateci a stare in equilibrio e ad uccidere sul nascere il cieco assassino che c’è in alcuni di noi.













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