Ciao Camilleri, genio immortale



Il suo inchiostro era la fantasia. La sua mente era una biblioteca: la sua memoria, anche quando ha perso la vista, s’arrampicava fra scaffali pieni di ricordi e di citazioni. La sua penna era la Sicilia. La sua Sicilia: tutta particolare, densa di sapori, colori, modi di dire che sono diventati universali. Come le storie che Andrea Camilleri raccontava. Storie che sono entrate in ogni casa. Prima fra le pagine. Poi grazie alla tv. Per merito di quel commissario Montalbano che all’inizio era un omaggio al grande giallista spagnolo Montalban e al suo Pepe Carvalho e che poi s’è costruito uno spazio tutto suo, facendo diventare Camilleri uno di noi: un po’ un padre, un po’ un nonno, un po’ un maestro. Visionario e insieme concreto. Fatto di terra e di mare. Il maestro - che con i suoi 93 anni ha attraversato diverse Italie, alcune raccontandole, molte detestandole, tutte vivendole fino in fondo - diceva che la letteratura non può cambiare il mondo. Però può parlare al mondo. In diversi modi. Come ha fatto lui: da regista, da scrittore, da sceneggiatore, da docente, da uomo di radio, di tv e di teatro, da eclettico funzionario di una Rai che forse non c’è più. I grandi artisti non sempre riescono a godersi gloria e successo. Andrea Camilleri - che all’inizio non ebbe certo un successo travolgente - è riuscito a sedersi sui propri pensieri, a riprendere a scrivere dopo 12 anni di silenzio, e a sfondare. Milioni di copie. Traduzioni in 120 lingue. Già, le lingue: lui sapeva parlare una lingua universale, cara a chi ha letto solo un suo libro, ma anche ai critici che all’inizio lo guardavano con sospetto e che poi ne hanno capito - con la giusta dose d’invidia - la grandezza, l’immediatezza, l’originalità, persino la stravaganza. E molto del suo successo lo si deve alla sua editrice: Elvira Sellerio. Fu lei a proibirgli di fermarsi dopo i due primi libri. Fu lei a capire che dentro quell’uomo dalle mille vite, dai mille racconti e dai mille volti, c’era anche uno scrittore capace di arrivare al cuore di ciascuno.

«Se potessi - aveva detto di recente -, vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio cunto passare tra il pubblico con la coppola in mano». E così è andata, in un certo senso. Un po’ Tiresia, l’indovino cieco dell’Odissea, un po’ personaggio di Montalbano (ci sono pezzi di lui in molti dei protagonisti), un po’ vecchio saggio sprofondato nel fumo dell’ultima sigaretta, un po’ attore e regista della sua stessa vita, della sua stessa carriera, ammesso che vi fosse un confine fra l’una e l’altra. Chissà cosa direbbe oggi, leggendo tutte queste parole, rivedendosi e risentendosi in tv e in radio, scoprendo che non è stato solo letto, ma anche profondamente amato. Nelle sue storie, che hanno avvicinato ai gialli non solo molti lettori ma anche molti autori, che un tempo disdegnavano un genere che oggi è una delle colonne portanti della nostra letteratura, solo una cosa, a ben guardare, non ha mai avuto la meglio: la mafia. Perché lui - pur facendola intuire e quasi sentire, come un rumore di sottofondo - preferiva tenerla ai margini di ogni suo giallo, «per non eleggerla ad arte».

Diceva: «Che cosa straordinaria possono essere i libri. Ti fanno vedere posti in cui agli uomini succedono cose meravigliose. E cominci a farti parecchie domande». Da un certo punto di vista, ieri ci ha lasciato senza risposte. Ma un Paese intero, senza contare i tanti Paesi che hanno imparato ad amarlo attraverso i suoi libri, gli è grato per le tante domande che restano aperte e per la scoperta di tanti posti meravigliosi che abitano ancora nella sua sconfinata fantasia.

 













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