«Sindaca sì, dottora no» Ecco le parole al femminile 

Dopo la brochure della regione, il giudizio della sociolinguista della Crusca Vera Gheno:  «Il fenomeno riguarda l’evoluzione della società umana e quindi è in mutazione»



TRENTO. L’Accademia della Crusca fornisce decine e decine di spiegazioni, il dizionario Zanichelli ha addirittura una sezione dedicata alla trasformazione dei nomi dal maschile al femminile. E ora il Consiglio regionale ha messo a punto una brochure, destinata alle associazioni che si occupano della promozione della figura della donna, che tratta proprio il tema del linguaggio di genere. Una questione che negli ultimi tempi ha scatenato un dibattito sempre più acceso, anche se le sue origini sono molto più radicate del tempo di quanto si possa immaginare. «In realtà – spiega la sociolinguista Vera Gheno, che insegna all’Università di Firenze e gestisce l’account Twitter dell’Accademia della Crusca (di cui è collaboratrice dal 2000) – il fenomeno è molto semplice e riguarda prima di tutto l’evoluzione della società umana. Dal momento che trenta/quaranta anni fa le donne hanno iniziato a ricoprire incarichi che prima erano di appannaggio esclusivamente maschile, di conseguenza la lingua si è evoluta e hanno fatto il loro ingresso nel panorama lessicale forme come sindaca o ministra, di cui personalmente consiglio (senza ovviamente imporlo) l’utilizzo. Per le professioni particolarmente legate al mondo femminile vale lo stesso principio: il maschile di ostetrica (che per la cronaca è “ostetrico”) è difficile da sentire ancora al giorno d’oggi. Pensiamo anche al termine “senatrice”: se negli anni a Settanta Tina Anselmi (il primo ministro donna, o ministra che dir si voglia, della storia della Repubblica) ci si rivolgeva con il titolo “senatore”, ora “senatrice” è talmente popolare che viene utilizzato al femminile anche nella saga Star Wars. La diffusione di “presidenta” con la “a” finale è invece da attribuire a una bufala circolata su qualche giornale un paio di anni fa: la forma corretta è “la presidente”. Anche qui però la scelta personale gioca un ruolo fondamentale: se per esempio Laura Boldrini sul suo blog si definiva “la Presidente della Camera”, Irene Pivetti, seconda presidente di sesso femminile dopo Nilde Iotti, era particolarmente intransigente nel richiedere il titolo al maschile. Non corrisponde al vero che le donne prima di una certa epoca non occupassero posizioni di potere (pensiamo alle imperatrici, alle regine: nessuno si sarebbe mai immaginato di dire “il Re Vittoria”), ma la loro presenza in alcuni ruoli era troppo poco significativa perché il genere femminile della parola si diffondesse». La sociolinguista chiarisce poi un altro punto: «Ci sono alcune parole, come dottoressa o studentessa, per cui la forma in -essa è si è ormai acclimatata da tempo; in casi come questi, il femminile in -a (“dottora”, “studenta”) è grammaticalmente scorretto. Ma confido in quella che amo chiamare “saggezza dei parlanti”: se l’uso del genere femminile dei nomi continuerà ad aumentare, tempo qualche decennio nessuno si accorgerà più della presunta “stranezza”».(p.g.)













Scuola & Ricerca

In primo piano