«Sala parto, l’esperienza fa la sicurezza»

Ioppi e gli standard nazionali: «L’alternativa è avere personale mobile, ma attenti a non sguarnire Trento e Rovereto»


di Chiara Bert


TRENTO. «Dobbiamo essere consapevoli che oggi le esigenze di sicurezza non sono quelle del passato. Nessuno dice “entro in sala parto e vada come Dio vuole”». Marco Ioppi, noto ginecologo, presidente dell’Ordine dei medici e (ancora per qualche giorno) direttore del dipartimento materno-infantile dell’Azienda sanitaria, prova a spiegare - ma nel suo caso meglio sarebbe dire ri-spiegare - perché gli standard sui punti nascita (1000 parti all’anno che scendono a 500 nelle aree di montagna, ndr) sono importanti. Standard su cui il governatore Ugo Rossi, pressato in maggioranza dall’Upt, ha dichiarato «doveroso» un ulteriore approfondimento, con la possibilità di chiedere al ministero (finora irremovibile sul punto) maggiore flessibilità.

Dottor Ioppi, cosa ne pensa? Dal suo punto di vista di medico c’è ancora da approfondire?

È bene ricordare che i criteri sono stati individuati per aumentare la qualità e la sicurezza delle pazienti e degli operatori. La casistica dei parti è determinante perché ormai è risaputo che la quantità di interventi che un medico fa gli consente un’esperienza e una preparazione tali da poter districarsi in ogni situazione con sufficiente autorevolezza. Fino a poco tempo fa ci additavano come quelli che volevano creare il panico, oggi siamo d’accordo che ci sono servizi che vanno messi in sicurezza.

Potrebbero esserci soluzioni «intermedie» a cui fa cenno il presidente Rossi?

Tutto si può fare dal punto di vista teorico. Potremmo andare ad individuare dei modelli che possono anche superare lo standard del numero di parti all’anno.

Come?

Se noi potessimo far sì che il personale, anziché stare in un ospedale, si sposta e va ad accumulare l’esperienza sufficiente, si potrebbero far sopravvivere dei punti nascita destinati alla chiusura. Ma questo riguarderebbe medici, ostetriche, pediatri, anestesisti, che dovrebbero essere resi autonomi.

Una mobilità sostenibile?

Significa avere del personale disposto a girare. Servono modifiche di tipo normativo e contrattuale, è un impegno non da poco. Servirebbero sicuramente degli incentivi, ma soprattutto bisognerebbe stare attenti a non sguarnire Trento e Rovereto.

C’è chi, come l’assessore Gilmozzi, dice: finora il modello trentino ha funzionato, la mortalità neonatale è bassa, perché cambiare?

Ha funzionato perché non c’era nella popolazione l’esigenza di sicurezza che c’è oggi. Noi abbiamo numeri bassi, la casistica va fatta su numeri più ampi. La mortalità è un indicatore grossolano, è troppo poco che uno nasca e sopravviva. Oggi parliamo di morbilità e di benessere. Io ricordo che in sala parto le situazioni di conflitto le abbiamo ancora, e sfociano in cause penali. Tutti i sindaci e gli amministratori che si stracciano le vesti contro la chiusura dei punti nascita io non li ho mai visti in un’ aula di tribunale, o a raccogliere firme di solidarietà a un medico denunciato.

Occorre dunque scegliere tra sicurezza o prossimità della sala parto, dunque?

Se continuiamo a considerare la sala parto come un servizio di prossimità, che può stare ovunque, allora torniamo all’ostetricia del ’900, quando tutto era lasciato alla natura. Io so cosa vuol dire lavorare in una sala parto di periferia e dico che sulle sale parto non si scherza. Basta calcoli campanilistici o elettorali.

Ci sono modelli nell’arco alpino che hanno fatto scelte diverse dalla chiusura?

In Baviera non hanno chiuso nulla d’ufficio ma hanno adottato requisiti stringenti che garantiscono la tenuta in vita del punto nascita, oltre il numero di parti: dai tagli cesarei agli interventi di asportazione dell’utero. Qui invece c’è chi si ostina a voler mantenere aperte le sale parto a tutti i costi, perché ci interessano le mura e non la sicurezza.

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