Il sindaco Miorandi allarga le braccia: «Non decidiamo noi». Ma pensa a una riqualificazione complessiva

Ruspe e motoseghe: lo scempio del Leno

La periodica pulizia dell'argine ha tolto tutto il verde dall'alveo del torrente


Luca Marsilli


ROVERETO. Forse il problema è a monte, nello strabismo con cui si guarda al torrente Leno ed ai fiumi in generale. Per i cittadini, residenti o turisti che siano, elementi forti del paesaggio, caratteristici e fondamentali anche per la loro capacità di portare brani di natura selvaggia, o per lo meno spontanea, fin dentro la città. Per gli ingegneri invece semplici scoli: la rete di scarichi che deve garantire in sicurezza il deflusso delle acque nei momenti di piena.

I primi guardando la galleria di pioppi, robinie e fichi selvatici che ormai cancellava per buoni due terzi la vista dell'argine cementificato del Leno, vedevano un tripudio di vita e frescura. Una arteria verde e pulsante di vita che attraversava il centro della città. I secondi, ostacoli pericolosi al celere deflusso delle acque e un insidia alla stabilità degli argini e dei ponti a valle.

In questi giorni gli operai dei Bacini Montani sono calati sul Leno, come succede ogni tre o quattro anni. Ma stavolta per una pulizia radicale, non per il solito taglio a raso delle piante che lasciava le ceppaie, e quindi la garanzia che nuovi polloni avrebbero rinverdito le sponde già dalla prossima primavera. A colpi di ruspa sono stati sradicati arbusti e alberelli. E l'effetto, dall'altezza del tiro a segno fino alla foce, è devastante: il Leno è tornato quello che era nella previsione degli ingegneri che ne hanno progettato gli argini: un canale di cemento e massi (usati per risparmiare cemento) che spara l'acqua delle valli del Pasubio nell'Adige.

Negli ultimi giorni si sono dedicati ad uno dei pochi ritagli sfuggiti alle motoseghe negli anni passati: quel triangolo in sponda sinistra a monte del ponte Forbato (Santa Maria) ingentilito a memoria d'uomo da alberi alti 15 metri. Disboscato come è ora, rivela tutta la propria miseria: una serie di terrazzamenti in muratura a sostenere l'imbocco della roggia Paiari. Brutto e assolato, desolante per chi ha memoria di come appariva. Anche se ora un progetto di riqualificazione con panchine, illuminazione e ponticello (sopra la roggia) lo ingentilirà un po'.

Alle scontate proteste di chi vede violentato uno dei pochi scorci verdi della città, il sindaco Miorandi risponde allargando le braccia: «Non abbiamo voce in capitolo. Abbiamo chiesto che fosse risparmiato almeno un grande albero, visto che lì realizzeremo il parco dell'acqua, ma la risposta è stata no: statisticamente, ogni 30 anni l'acqua arriva fino a sopra il primo terrazzamento, e quindi tutti gli alberi cresciuti lì vanno abbattuti. Come ci è vietato piantumare in qualsiasi modo quella porzione: addirittura non ci possiamo mettere nemmeno le panchine».

Resta la distanza tra le due visioni del torrente, anche se è facile prevedere che tra il poeta che pensa ai tuffi del merlo acquiolo e l'ingegnere che prospetta una piena che potrebbe portarsi via con l'argine mezza città, sia il secondo ad avere più ascolto. «Ci deve essere un modo - dice sconsolato Miorandi - una via di mezzo tra il rischio alluvione e la desolazione di un torrente umiliato a canale di scolo. Vederemo se si può fare qualcosa, se si può riqualificare il torrente». Ma è difficile, viste le premesse. Si può studiare, progettare e pagare un «parco», ma non metterci un albero. Oltre gli argini ci sono strade e case. Dentro gli argini comandano gli ingegneri. Forse tanto vale risparmiarsi i soldi.













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