«Piazza Fontana: i giovani devono conoscere i fatti»

A Trento il regista di “Romanzo di una strage” «La poesia per raccontare una storia decisiva»


di Paolo Morando


di Paolo Morando

Una delle molle è stata l’ignoranza. Quella per cui nel 2006, da una ricerca commissionata dalla Provincia di Milano, emerse che per la maggioranza dei giovani tra 17 e 19 anni (43%) la strage di piazza Fontana fu opera delle Brigate rosse, per il 38% invece della mafia e per il 25% degli anarchici. Anche da lì è partito Marco Tullio Giordana per il suo film “Romanzo di una strage”, che racconta l’attentato del 12 dicembre 1969 a Milano: 17 morti e 88 feriti, l’inizio della strategia della tensione. Oggi lo presenterà a Trento, invitato dalla casa editrice Il Margine (vedi a destra). «Questo episodio così importante per la nostra storia non appartiene alla memoria del Paese - afferma il regista - non si è formato un giudizio, e prima ancora una conoscenza. Il film ha lo scopo di colmare questa lacuna, per spiegare cosa avvenne a chi non era ancora nato. E non per strizzare l’occhio a chi in quegli anni c’era, protagonisti in via d’estinzione. Per raccontare insomma il tempo delle spinte eversive che subì l’Italia a fine anni ’60 e delle risposte che queste comportarono in un Paese che allora ero inserito nella logica dei blocchi contrapposti: un’Italia a sovranità limitata».

Il suo film ha scatenato polemiche: appena uscito, Adriano Sofri ha pubblicato un instant-book in Internet, “43 anni”, per smontare il libro del giornalista Paolo Cucchiarelli “Il segreto di Piazza Fontana” da cui è liberamente tratto.

Ai giovani le attuali polemiche tra “sopravvissuti”, con toni da anatema e da scandalo, sembrano un regolamento di conti di cose lontane, non una vera occasione per approfondire il tema. Ed è scoraggiante. Detto questo, le proiezioni nelle scuole sono davvero sbalorditive: i ragazzi seguono tutto il film con grandissima attenzione.

Anche perché si tratta di una spy-story incalzante, nei fatti accaduti e nello stesso svolgersi della sceneggiatura.

“Romanzo di una strage” non dà nulla per scontato. Deve raccontare una storia a chi non la conosce, non agli “iniziati”. Costruisce personaggi, come ci ha insegnato la tragedia greca, ma sempre fornendo informazioni.

La vicenda giudiziaria è vasta e complicatissima ma nel film c’è sostanzialmente tutto, quanto meno per accenni.

Mi fa piacere che venga notato. Il film non racconta nulla di inesatto, ma non dimentichiamo che il cinema non può sostituire i libri di storia. Casomai deve raccontarla con i propri strumenti. E magari, in questo modo, invogliare i giovani a saperne di più, a ricorrere ad altri strumenti. A partire dai libri, confrontandone le diverse tesi.

In Internet, nei siti cui fanno riferimento gli anarchici allora ingiustamente coinvolti, i toni usati nei suoi confronti sono spesso duri. Compare anche la sua risposta a una loro lettera, che le hanno scritto prima ancora che il film uscisse.

È sorprendente, come se scattasse un riflesso condizionato. Non parlano i ventenni di allora, è il loro passato che parla attraverso di loro. Come la mamma di Anthony Perkins in “Psycho” di Hitchcock. Impressionante. Non hanno nulla da correggere, del loro vissuto, si scandalizzano invece se qualcuno cerca di riportare chiarezza in una vicenda caratterizzata negli anni da una disinformazione colossale.

Uno dei punti più discussi è la figura di Calabresi: ne esce troppo bene, è stato detto. Forse anche perché chi lo interpreta, Valerio Mastandrea, non è il esattamente il prototipo cinematografico del “cattivo”.

Questa critica nasconde la delusione per non vedere raccontato Calabresi come uno sbirro. E lo era, certo, non era Padre Pio: era un poliziotto laureato, non come i suoi uomini che erano nella stanza della Questura assieme a Giuseppe Pinelli, ma pur sempre un poliziotto. Non posso escludere che qualche ceffone lo abbia tirato anche lui, ma non era in quella stanza quando Pinelli precipitò dalla finestra. Mentre per anni è stato additato come assassino. E venne attraversato da una crisi profondissima: era morta una persona che era sottoposta alla sua custodia. E benché le indagini su piazza Fontana non gli spettassero più, si avvicinò a qualcosa che non doveva conoscere.

Il misterioso deposito di armi di Aurisina, in provincia di Trieste, da cui potrebbe essere stato trafugato l’esplosivo usato proprio il 12 dicembre. E che molti anni dopo si scoprirà essere il “Nasco 203” di Gladio.

Questo elemento e molti altri non possono mantenere viva la leggenda dei buoni da una parte e dei cattivi dall’altra. Sono fatti. E il compito di un intellettuale è dire la verità. Farlo non significa affatto “santificare” Calabresi, è rimettere le cose a posto. Mastandrea non è Calabresi, lo interpreta 43 anni dopo. Ma il punto non è questo: il film propone un’informazione corretta. Mentre chi continua a nascondersi dietro al “commissario finestra” fa ancora disinformazione.

Un’altra critica che le è stata mossa, forse la principale: la tesi della doppia bomba che ha tratto dal libro di Cucchiarelli.

È un’ipotesi che la Procura di Milano solamente pochi giorni fa ha giudicato inverosimile. Ma esaminare le carte di allora è tempo sprecato: gli indizi che la suggerivano sono infatti spariti.

I resti di miccia trovati nella Banca nazionale dell’agricoltura, del tutto incompatibili con una bomba a orologeria?

Esattamente. Tanto che l’ipotesi della doppia bomba nel 1974 venne avanzata anche dal giudice Emilio Alessandrini. E dobbiamo ringraziare i terroristi di Prima Linea che nel ’79 lo uccisero, togliendo purtroppo di mezzo un uomo valoroso.

Che cosa potrebbe spiegare in più, la doppia bomba, rispetto a quanto accertato?

Le possibilità sono due. La prima: due bombe, una inoffensiva collocata dall’ala bombarola degli anarchici, che esisteva, e poi raddoppiata da neofascisti infiltrati dai servizi segreti. Oppure, come io penso, una prima bomba portata in banca dai fascisti utilizzando un sosia di Pietro Valpreda, su cui dunque far ricadere la colpa, e raddoppiata dai nostri servizi in collaborazione con frange di neofascisti e di servizi segreti stranieri. E attenzione: non perché il primo attentato non dovesse provocare vittime, ma perché a qualcuno ne serviva un numero maggiore.

Proprio questa è la tesi del suo film, espressa nella scena finale dell’immaginario colloquio tra Calabresi e il prefetto Federico Umberto D’Amato. Perché allora tante critiche da parte degli anarchici?

Ovviamente non posso sostenere questa tesi in un tribunale, ma da qui a sbattermi in faccia sentenze a cui dovrei attenermi, come fossero verità assolute, ce ne corre. Le rispetto, ma non le considero vangelo. E continuo a cercare la verità. Come per la morte di Pinelli: per la giustizia non ci sono responsabilità, cadde dalla finestra per un “malore attivo”. È uno strano gioco, quello di citare solo sentenze che condannano altri e mai quelle che ci mettono in scacco.

Pochi mesi prima di piazza Fontana, a Milano esplosero le bombe del 25 aprile. E pure in quel caso vennero incolpati gli anarchici, tra cui un bolzanino, poi tutti assolti. Tutto iniziò lì?

Senz’altro. Infatti per quegli attentati la Cassazione ha riconosciuto colpevoli Freda e Ventura. Mentre la Questura si mosse solo contro gli anarchici, senza prove. E qui sbagliò lo stesso Calabresi. Ma proprio per via di quelle bombe credo che la tesi del raddoppio a piazza Fontana sia valida: anche il 25 aprile gli attentati dovevano uccidere, mentre invece vi furono solo feriti. Forse i servizi segreti iniziarono a non fidarsi più dei manovali. E decisero di mettere in campo una seconda squadra.

Lo stesso ex ordinovista Delfo Zorzi, per piazza Fontana condannato in primo grado all’ergastolo e poi assolto, avrebbe definito Ventura “quello delle bombe inesplose”

Tutto questo scandalo è ridicolo. La verità è che non si vuole ammettere che gli anarchici avessero un’ala militarizzata. E ognuno dovrebbe fare i conti con la propria coscienza. Ma il film non dice che gli anarchici misero la bomba a piazza Fontana. Dice un’altra cosa, più raffinata. E la fa dire appunto a D’Amato in un incontro con Calabresi mai avvenuto, che racconto attraverso l’espediente del sogno. Io faccio cinema, non sono in un tribunale: dove non arriva la prosa va attivata la poesia. D’altra parte non si vince Cannes con un rinvio a giudizio.

Sta accompagnando il film in tutta Italia, incontrando soprattutto giovani come avverrà a Trento. Con quale spirito?

Lo faccio volentieri proprio con la prospettiva di incontrare ragazzi. E non i vecchi tenori del ’68. Di quello che dicono loro oggi, 43 anni dopo, potrei scrivere prima ancora che aprano bocca.

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