Mottes: «Così mi sono salvato dai lavori forzati nel lager»

Fai della Paganella, compie 90 anni in maggio il noto imprenditore della lavorazione marmi Per la sua avventura, che ora racconta senza enfasi, ha ricevuto una medaglia dal Presidente


di Rosario Fichera


FAI DELLA PAGANELLA. Il 29 maggio compie 90 anni. Eppure, a giudicare dalla vigorosa stretta di mano, dalla guida sportiva, dal modo come passeggia nei boschi e, soprattutto, dalla capacità d’incollare alla sedia chi lo ascolta mentre racconta il “romanzo” della sua vita, Ermete Mottes 90 anni non li dimostra assolutamente. Nato e cresciuto a Fai della Paganella, Ermete, sull’altopiano è molto conosciuto, sia perché ha fondato una famosa azienda di lavorazione del marmo, la “Mottes marmi”, gestita poi dal nipote Antonio e oggi da Federico, sia perché è una delle colonne del Gruppo alpini del suo paese.

Reduce dai lager tedeschi, ha ricevuto, proprio per questo motivo, una medaglia dal Presidente della Repubblica, un’onorificenza di cui è orgoglioso, anche se non ama ostentarla. Quando è in compagnia lui, gran oratore, non racconta quasi mai delle sofferenze patite durante la prigionia e quando accade lo fa con umiltà, senza eroismi, con la semplicità di chi sa di essere stato più fortunato di altri per essere tornato a casa vivo.

«Tutto è iniziato il 23 agosto del 1943 – racconta in compagnia del capogruppo degli alpini di Fai della Paganella, Carlo Clementel e di Patrizio Tonidandel - insieme a 600 alpini dei battaglioni Vicenza e Bergamo, a Merano, attendevo di partire per il fronte, invece, l’8 settembre, subito dopo l’armistizio di Badoglio, i soldati tedeschi, con le armi spianate, ci costrinsero a salire sui vagoni per il trasporto di calcinacci, verso un destino ignoto.

Un destino che vi portò in Germania.

Sì, in Sassonia, al campo d’internamento B11, dove giunsi dopo tre terribili giorni di viaggio, durante i quali, da Bolzano a Innsbruck, nelle gallerie, la sabbia e i residui dei materiali mi penetravano come spilli nei polmoni, negli occhi, nella bocca.

Fu l’inizio di una lunga sofferenza?

Fu quando si presero la mia vita. Al campo di concentramento mi rifiutai di aderire alla Repubblica di Salò, così fui internato e, di giorno, costretto a lavorare in una fabbrica sotterranea di munizioni. Mangiavamo solo la sera una piccola fetta di pane, dell’acqua sporca spacciata per minestra, due zollette di zucchero e una di margarina. Molti morivano di anemia. Io ho avuto la fortuna di conoscere un francese con il quale scambiavo i marchi di carta senza alcun valore con cui ci pagavano in fabbrica, con dei buoni viveri della Croce Rossa, preclusi a noi italiani. A mia volta, al lavoro, li cedevo di nascosto a un civile belga per del pane.

La fabbrica fu anche bombardata?

Nel luglio del ’44 rimasi gravemente ferito al petto. Mi ricoverarono nella baracca adibita a ospedale e fui curato da un ufficiale medico siciliano internato, il dottor Spicuzza. Poi mi ammalai di pleurite e un infermiere, in cambio della mia mantella, mi procurò una medicina che mi fece guarire.

Infine la liberazione.

Sì grazie ai Russi, il 5 maggio del 1945, ma non essendoci più in Germania vie di comunicazione, riuscii ad arrivare a casa solo dopo cinque mesi, il 14 ottobre. E quel giorno mi ripresi mia vita.













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