Moro, lo Stato, le Br: i segreti di quei 55 giorni di trattative occulte

di Paolo Morando Non si contano nelle biblioteche i libri sul caso Moro. Migliaia le pagine partorite dalle commissioni parlamentari d’inchiesta. Per non parlare dei cinque processi: le deposizioni,...


di Paolo Morando


di Paolo Morando

Non si contano nelle biblioteche i libri sul caso Moro. Migliaia le pagine partorite dalle commissioni parlamentari d’inchiesta. Per non parlare dei cinque processi: le deposizioni, gli atti, le sentenze. Possibile dire ancora qualcosa di nuovo? Sì. Lo ha fatto Alessandro Forlani, 46 anni, piacentino (nessuna parentela con l’ex segretario della Dc Arnaldo), giornalista Rai e voce nota al pubblico di “Pagine in frequenza”, che conduce ogni domenica mattina su GrParlamento. Un lavoro immenso e certosino, frutto di dieci anni di ricerche, testimoniate dalla bibliografia e dall’indice dei nomi che corredano il saggio. E dal valore doppio: perché Forlani da qualche anno è non vedente, in seguito a una malattia. Qualcuno avrà letto del suo incontro con papa Francesco, lo scorso 16 marzo in sala Nervi: un’immagine che ha fatto il giro del mondo, con la carezza del pontefice al suo labrador Asia.

Ad aiutare Forlani, nella consultazione del materiale raccolto per il libro, sono stati quindi programmi di lettura vocale. Ma a costituire il vero “corpus” di La zona franca. Così è fallita la trattativa segreta che doveva salvare Aldo Moro (Castelvecchi, 334 pagine, 19,50 euro) sono le interviste, numerose e inedite. Con personaggi magari a volte marginali, ma in realtà tali solo perché hanno sempre raccontato pezzi di verità non ufficiale. Che per la prima volta Forlani assembla organicamente: tratteggiando un quadro finora mai raccontato di quei 55 giorni iniziati il 16 marzo del 1978, con l’agguato brigatista in via Fani e la strage della scorta, e conclusisi il 9 maggio in via Caetani, con il ritrovamento del corpo del presidente della Dc. Già, il 9 maggio. Domani è dunque il 35esimo anniversario. Il giorno giusto per conoscere fatti e protagonisti dalla voce dello stesso autore, ospite della biblioteca comunale di via Roma dove appunto domani con chi scrive, alle 17.30 nella sala degli Affreschi, presenterà il proprio libro. Che si giova anche di una prefazione di Filippo Ceccarelli, autorevole firma di Repubblica. Un libro, spiega Forlani, «che non dà risposte ma pone domande».

Il perché del libro è chiaro: raccontare per la prima volta i retroscena delle trattative per salvare Moro. Che ci furono.

È così. Sì è scritto tanto sui misteri di via Fani, sul comunicato del lago della Duchessa, si è cercato di capire chi ci fosse dietro al sequestro, se la Cia, il Kgb o il Mossad. Io sono ripartito invece dalla cronaca di quei 55 giorni, dall’esatta cronologia che non a caso riporto nel libro.

Indagando come mai era stato fatto il versante dei contatti tra chi voleva mediare e le Br. Lei individua tre diverse trattative: ma la linea non era quella della fermezza?

Tutti trattavano, com’era logico che accadesse. Ovviamente, quando ci si trova di fronte un’organizzazione che si contrappone allo Stato, non lo si può dire. Ma è avvenuto. Restando nell’ambito del terrorismo brigatista, lo si era già fatto per Sossi. E anche dopo, per i sequestri Cirillo e D’Urso.

Lei individua tre trattative: solo parallele o convergenti?

Non vi sono elementi che provano che si trattasse di un’unica grande trattativa. Ma c’è un indizio della loro possibile coordinazione: pur essendo distinte, dovevano andare tutte in buca nel primo pomeriggio del 9 maggio.

Mentre Moro venne ucciso la mattina. Vediamole, queste trattative occulte.

La più nota è quella portata avanti dal Psi, per il tramite di esponenti di Autonomia operaia in contatto con le Br, sulla base della disponibilità dello Stato a provvedimenti di clemenza verso un brigatista incarcerato.

Il presidente della Repubblica Leone disse di essere “con la penna in mano”. Per firmare che cosa? E a favore di chi?

Se si fosse trattato di Paola Besuschio, condannata con sentenza passata in giudicato, doveva essere un provvedimento di grazia. Benché su di lei pendesse un ulteriore mandato d’arresto, sul quale però la magistratura avrebbe potuto autonomamente soprassedere. L’alternativa era Alberto Buonoconto, che non era delle Br ma dei Nap: in quel caso sarebbe stato un trasferimento. E poteva bastare una telefonata di Leone, quale capo del Csm, al magistrato di sorveglianza di Napoli. In più i socialisti avevano fatto sapere ai brigatisti che la mattina di quel 9 maggio Fanfani avrebbe convocato il Consiglio nazionale della Dc, con all’ordine del giorno proprio la trattativa, con un qualche riconoscimento politico delle Br. Esattamente quanto i terroristi avevano sempre invocato.

E qui si entra nel mistero. Perché proprio quando la richiesta delle Br è sul punto di essere accettata, la situazione precipita e Aldo Moro viene ucciso. E le altre due trattative?

C’è quella portata avanti dal Sismi in Jugoslavia, dove a Belgrado erano trattenuti tre terroristi tedeschi della Raf. L’accordo prevedeva la loro liberazione: in sostanza era un riconoscimento politico delle Br da parte del maresciallo Tito, allora il leader più influente dei Paesi non allineati. I tre sarebbero poi stati trasferiti con un aereo del Sismi a Beirut, dove ad attenderli sulla pista c’era il colonnello Giovannone.

Il coinvolgimento di Tito è forse la pagina che finora meno era stata approfondita.

Se ne parla marginalmente nella relazione conclusiva della Commissione Moro, dicendo che Tito si interessò della cosa ma che non se ne fece niente. Poi l’ammiraglio Martini, che nel ’78 era il vice del capo del Sismi Santovito, nella sua deposizione in Commissione stragi del 2000 poco prima di morire, raccontò che fu proprio lui a recarsi a Belgrado. Ma, disse, per “aprire” la trattativa. Ho però intervistato Mazzola, che allora era sottosegretario alla Difesa: per la prima volta rivela che quel 9 maggio la missione si sarebbe invece dovuta chiudere. E che sia il ministro dell’Interno Cossiga sia il presidente del Consiglio Andreotti ne erano pienamente a conoscenza.

Smentendo dunque l’improbabile scenario di un’iniziativa autonoma del Sismi. Poi c’è il tentativo del Vaticano.

Che raccolse una cifra enorme: alcuni parlano di 10 miliardi di lire, altri dicono 25. Recentemente, al processo sulla trattativa Stato-mafia, monsignor Fabbri, assistente dell’ispettore generale dei cappellani delle carceri, ha raccontato di aver visto questi soldi. Papa Paolo Vi gli indicò un tavolo coperto da un telo, lui lo scostò e vide una montagna di mazzette. Lo stesso papa gli spiegò che servivano per pagare il riscatto di Moro. E l’ispettore, monsignor Curioni, gli disse che non sapevano come contattare le Br.

Che giorno era?

Il 6 maggio. Tre giorni prima dell’uccisione di Moro. Anche se va detto che le Br non puntavano a un riscatto: l’unico appiglio è con quanto avvenne l’anno prima, quando ai terroristi fu pagato un miliardo di lire per il rilascio del figlio dell’armatore Costa.

E un riscatto sarebbe stato pagato tre anni dopo per Cirillo.

Sì, un miliardo e mezzo. Anche se poi Senzani disse che mancavano 150 milioni.

Qualcuno fece la cresta.

Guarda caso proprio il 10%. La camorra, o forse i servizi.

E le rivelazioni di Cazora? Spieghiamo l’incredibile vicenda di questo oscuro parlamentare calabrese della Dc.

Oggi lo definiremmo un “peone”. Ma si diede da fare personalmente, raccogliendo informazioni sulla prigione di Moro in ambienti della malavita.

Prigione che lei non indica esclusivamente in via Montalcini. Ma qui lasciamo al lettore la sorpresa. Cazora dunque.

Il 7 maggio andò da Cossiga, per dirgli che aveva saputo che il 9 la “sentenza” annunciata dalle Br sarebbe stata eseguita. Ma il ministro gli rispose invece di stare tranquillo, perché proprio quel giorno Moro sarebbe stato liberato. Se Cossiga arrivò a sbilanciarsi così con un Cazora qualsiasi, significa che aveva in mano elementi solidi. E così Tito e Paolo VI, che non si sarebbero spinti così in là se non in presenza di un terreno più che favorevole.

L’uccisione di Moro a trattative quasi chiuse porta a un ulteriore ragionamento: che è quello sull’eterodirezione o meno delle Br. Lei crede al “grande vecchio” che alcuni hanno individuato in Igor Markevitch?

Parlerei piuttosto di più persuasori occulti, di suggeritori. Gallinari disse un giorno a Cossiga: se lei sapesse quante persone nelle istituzioni erano amici nostri, farebbe un salto. Io ci credo. Diverse persone, ognuna per i propri scopi, aiutavano le Br, suggerendo appunto cosa fare. E credo che qualcuno, insospettabile, abbia detto loro che era meglio farla finita proprio quel giorno, il 9 maggio, prima che le trattative giungessero a compimento.

Una congiura?

Non direi. Il termine evoca la nozione di complotto, fa pensare alla massoneria. Può darsi invece che si trattasse di persone che tra loro neppure si conoscevano, ma i cui suggerimenti andarono nella medesima direzione. E in effetti proprio subito dopo l’uccisione di Moro le Br conobbero il massimo dell’adesione. E svilupparono il massimo della violenza.

Un’ultima domanda. Tra le molte testimonianze che ha raccolto, non figura alcun brigatista: crede che non le avrebbero detto nulla di nuovo?

Nel 2003 ho parlato con Gallinari, mi disse che Moro è sempre rimasto in una prigione brigatista. Dal suo punto di vista ha ragione: che la dislocazione sia cambiata, per loro non conta. La loro posizione è sempre la stessa: abbiamo compiuto un’azione politica. Ma se lo scopo è invece raccontare una cronaca, parlare con loro è del tutto inutile. Ogni verità che esce da un tribunale è concordata tra le parti, è verità solo processuale. E benché sul caso Moro si siano celebrati cinque processi, che cosa sia successo veramente ancora non lo sappiamo.

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