«Mio marito si è ucciso e noi non siamo riusciti a cogliere i segnali» 

La testimonianza di una donna e del suo lutto: «Dall’interno è difficile capire il declino. Poi vivi tra sensi di colpa e rammarico»  


di Luca Petermaier


TRENTO. Sono passati quattro anni da quanto Sara (nome di fantasia) ha conosciuto l’abisso del suicidio del marito. Un abisso che trascina giù tutta la famiglia e che restituisce angoscia e sensi di colpa, vergogna verso gli altri e domande che restano spesso senza risposta. Ripensando a quel dolore - che oggi ha superato grazie ai gruppi di auto-mutuo-aiuto dell’Ama - Sara ricorda oggi un particolare che spesso accomuna i cosiddetti “sopravvissuti” al suicidio di un parente: «Mio marito si era avvicinato al baratro ogni giorno di più. Piccoli passi quotidiani che noi che gli stavamo vicino non abbiamo percepito nella loro tragicità. Come un bambino che cresce: se ci vivi a fianco ogni giorno non te ne accorgi. Ma intanto lui cresce».

Sara, lei ha perso suo marito quattro anni fa. C’erano state delle avvisaglie prima del suo tragico gesto?

Da qualche tempo lui era entrato in uno stato di depressione che gradualmente è peggiorato sempre di più. Avvisaglie specifiche non ce ne erano state. Il fatto che potesse togliersi la vita io non lo prendevo neanche in considerazione anche se il suo malessere era iniziato diversi anni prima.

Come avete vissuto all’inizio il dramma?

Da subito si prova un senso di colpa. Mi pare sia una caratteristica comune a tutti i sopravvissuti ai suicidi di parenti o amici. Il senso di colpa è per ciò che non si è fatto. Percepisci tutto come un fallimento, anche se magari la scelta di togliersi la vita non ha niente a che fare con ciò che tu hai fatto o non hai fatto per lui, ma è un percorso personale molto interiore di chi decide di farla finita.

Come è stato il suo percorso psicologico dopo la morte di suo marito?

Il primo periodo, un paio di mesi, è di totale sconvolgimento. È, tra l’altro, un periodo di cui non ricordo molto. Poi è subentrata la fase in cui ho cercato di capire che cosa è successo il giorno del suicidio. Ho cercato di ricostruire la dinamica di quel gesto. Ho letto documenti, controllato i telefoni alla ricerca di segnali, di indizi che mi dessero una spiegazione che, in realtà, non si trova.

Suo marito aveva lasciato qualche biglietto?

No, e questo mi ha spinta per un lungo periodo a cercare quelle risposte di cui parlavo prima.

Poi cosa è successo?

È arrivato il momento della disperazione vera e propria. È durato un anno: un sentimento devastante perché si intreccia con il ritorno alla quotidianità della vita. Ed è in quel momento che capisci il dramma in tutta la sua tragica grandezza. Dopo un paio di anni io mi sono rasserenata. Sono partita da ciò che rimaneva. Non è che la nostalgia sia passata, anzi. È solo che devi trovare dentro di te la forza di andare avanti.

Lei come si è avvicinata ai gruppi di auto-mutuo-aiuto?

Io avevo iniziato a frequentare una psicologa già durante la malattia di mio marito. Dopo un anno dalla sua morte avevo ancora bisogno di parlare del mio dolore, ma vedevo negli altri una certa resistenza a farlo e così è stata lei a consigliarmi di rivolgermi all’Ama facendomi presente che esistevano questi gruppi per l’elaborazione del lutto.

Quella sua esigenza di parlare del suo lutto era rivolta anche ai vostri amici comuni? Voglio dire: è stato un dolore condiviso anche con loro oppure - come spesso capita - di fronte al suicidio le porte si sono chiuse quasi in segno di vergogna?

Quello che provavo io a livello di sensi di colpa ho capito che lo provavano anche i nostri amici. Questo purtroppo rendeva difficile il confronto. Vedevo disagio nell’affrontare il tema. Il suicidio non è un lutto come gli altri, è avvolto da un’aurea di mistero che spesso non si vuole affrontare o non si ha la forza per farlo.

Ha mai provato rabbia nei confronti di suo marito?

Rabbia vera solo qualche volta, nei momenti più difficili. Ma avendo vissuto gli anni della sua malattia l’ho visto stare talmente male che mi sono fatta una ragione della sua scelta. Diciamo che questo mi ha un po’ rasserenata. Più che rabbia in realtà parlerei di rammarico, pensando a tutte le cose belle che si è perso nella vita.

Ci sono segnali che, dalla sua esperienza, bisogna tenere d’occhio sopra ogni altro? Campanelli d’allarme che, ex post, lei ora sarebbe in grado di individuare come decisivi per riuscire a intervenire prima che si compia l’atto?

Purtroppo quando ti trovi dentro le situazioni è difficile rendersi conto di quello che ti sta succedendo intorno. A noi è successo tutto molto gradualmente, è stato un lento declino e questo forse ci ha impedito di renderci conto che ci stavamo avvicinando troppo al baratro. Ma forse, a pensarci bene, un segnale c’è ed è la chiusura sociale: quando smetti di avere contatti con l’esterno, con gli amici più cari, quando non hai più voglia di uscire, ti chiudi in te stesso ecco, forse questo è il campanello di allarme più preoccupante.















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