La Trento dei cinquecento «invisibili»

Tanti ne ha contattati l’Unità di strada in un anno intero. Ma vanno e vengono: 150-200 i pasti al giorno al Punto d’Incontro


di Luca Marognoli


TRENTO. Gli invisibili finiscono di essere tali sono quando arriva un carro funebre a portarli via. O un treno li investe. Come è accaduto a Marius Barcea, 23 anni, ucciso da un rogo nella sua baracca, “fabbricata” sui terreni inquinati dell’ex Sloi, perché non era in grado di uscire dopo la menomazione riportata nel grave incidente di due anni fa sulla strada ferrata che passa a poca distanza dal villaggio dei Rom.

Talmente invisibili da sfuggire anche alle statistiche. Molto difficile è stato, ieri, trovare dei numeri che aiutino a capire l’entità del fenomeno: Trento è una città di passaggio - spiegano gli addetti ai lavori - non solo per i turisti, ma anche per i più poveri, che invece che un albergo cercano giacigli improvvisati sotto tetti di nylon e latta. Il numero oscilla a seconda dei periodi dell’anno, afferma l’assessora alle politiche sociali Mariachiara Franzoia: prendendo come riferimento i pasti distribuiti dal Punto d’incontro, vanno dai 150 ai 200. L’Unità di strada della Fondazione Comunità solidale, che gestisce a Trento e Rovereto anche le Opere Bonomelli per il ricovero notturno, nell’intero 2014 «ha contattato 569 persone, più delle metà delle quali prese in carico poi dai Servizi sociali, sanitari o da case di accoglienza», fa sapere il direttore Cristian Gatti.

Claudio Bertolli di Volontarinstrada svolge la propria attività prevalentemente in piazza Dante ma - spiega - «l’anno scorso avevamo fatto 7-8 uscite all’ex Sloi portando coperte, tè e sacchi a pelo, per cercare di relazionarci con chi ci viveva. Tanti non parlavano italiano, agli altri interessava soprattutto il fatto di essere lasciati in pace. Sì, sarebbe facile ricorrere a degli slogan per fare bella figura, ma è una situazione complessa».

Complessa e nota: «Si tratta «sempre delle stesse persone, che cercano sistemazioni di fortuna. Tendono a non accettare gli aiuti degli assistenti sociali: i dormitori non li vogliono perché comportano degli obblighi di convivenza. Loro non hanno interesse ad andarci: restano qualche mese, il necessario per raccogliere i soldi da mandare in patria dove hanno magari 6 o 7 figli. Vogliono restare anonimi».

Con i primi freddi e nei mesi invernali però la situazione si fa più difficile «perché dove vivono mancano le condizioni minime di sicurezza. Quanto accaduto non dico sia stato inevitabile, ma comprensibile. Il problema è che si parla sempre di decoro, degrado e sicurezza, istanze legittime e condivisibili, ma si perde l’umanità: ci si dimentica che sono persone, che muoiono lasciando una famiglia».

C’è chi insinua che lasciarli lì, nel loro “buco nero” sia più comodo, come nascondere la polvere sotto il tappeto. «Sì, lì non danno fastidio a nessuno», concorda Bertolli. «Ma quando succede qualcosa subito ci si meraviglia. In realtà sono la punta dell'iceberg».

Il Comune ha sottolineato in più occasioni che i Rom non vogliono farsi aiutare... «Non vogliono nei termini in cui pensa di farlo l'amministrazione. E poi a Trento sorgerebbe subito il problema della convivenza con gli altri: ma come, date i posti ai Rom e lasciate fuori gli italiani? È la guerra dei poveri, che scoppia quando non si fa un discorso più ampio, aumentando le risorse per aiutare chi ha bisogno».

Detto questo, Bertolli una proposta la fa: «Non dico di realizzare per loro delle casette, ma magari degli agganci elettrici, un minimo di servizi non standardizzati. Creare le condizioni, in terreni non tossici, dove si tolleri la loro presenza con un minimo di allacciamenti in modo che non capiti che un uomo muoia bruciato vivo, cosa non certo edificante per Trento. Ma si preferisce far finta di niente e intervenire con l'ordine pubblico quando la natura dei problemi è sociale». L’associazione Volontarinstrada si appresta ad organizzare una nuova edizione de “La notte dei senza dimora” il 17 ottobre, all'interno della Settimana dell'accoglienza del Cnca. «Quest’anno - annuncia Bertolli - faremo delle iniziative nuove e ancora più interessanti».

Cristian Gatti, direttore della Fondazione Comunità solidale, conferma che i Rom all’ex Sloi «sono un clan a parte, composto da parenti che provengono dalle stesse zone e preferiscono stare in condizioni molto precarie, maschi e femmine assieme. Non vanno a rubare, vivono della questua e di espedienti. Anche noi ci troviamo in grande difficoltà a rapportarci con loro».

Gatti ha esperienza diretta di cosa chiedono: «La possibilità di lavarsi, coperte, generi di prima necessità. Non vogliono posti in strutture, perché sono molto volubili: vengono qui in certi periodi e poi ritornano a casa. C'è una grande mobilità, anche perché affidano la famiglia ai genitori anziani, in Romania. Uno di loro mi diceva che in patria vivono in campagna e con quello che racimolava riusciva a procurare la somma necessaria per consentire ai figli di raggiungere la scuola e pagare i quaderni».













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