La sfida dei servizi sociali: ascoltare bimbi e genitori

Nicoletta (educatrice): «Essere fragili non è detto che sia una colpa». Un percorso di formazione in cui tutti, assistenti sociali e famiglie, si confrontano alla pari


di Chiara Bert


TRENTO. Racconta Federico, che ha vissuto dodici anni della sua vita fuori dalla sua famiglia: «Da bambino percepivo il giudizio dei servizi sociali nei confronti dei miei genitori, "Te la sei cercata, è giusto che tuo figlio non stia con te". E provavo vergogna, perché un ragazzino resta comunque parte della sua famiglia».

Racconta mamma Paola (la chiameremo così), che ha affrontato una storia di violenza e ora ha di nuovo sua figlia con sè: «Avevo tanta paura, mi sentivo giudicata, avevo poca autostima. Ci ho messo del tempo per capire che potevo fidarmi dell’assistente sociale». Un'altra mamma, Michela: «Avrebbero dovuto passare sul mio cadavere per portarmi via mio figlio. Ma ho incontrato un'assistente sociale che oltre alla professionalità ci ha messo un grande cuore e ho accettato l'allontanamento. È stato un percorso faticoso, con tensioni, e oggi che siamo vicini alla conclusione io sono serena del lavoro che abbiamo fatto».

Storie di cadute, di persone che hanno saputo chiedere aiuto e rialzarsi. Storie di errori, sensi di colpa ed energie rimesse in gioco. E di un nuovo approccio dei servizi sociali nella tutela dei bambini. Esperienze condivise in un percorso formativo che ha messo tutti gli attori attorno a un tavolo, assistenti sociali, educatori, genitori, ragazzi, con un titolo interessante “Ma chi l’ha detto che...? Parliamone ancora”, organizzato per il secondo anno dalle Politiche sociali del Comune di Trento con la Fondazione Demarchi. Un modo per condividere e ripensare gli interventi nei confronti delle famiglie in difficoltà, soprattutto quando l’esito è l’allontanamento del minore dal nucleo familiare e ci si trova di fronte ad una separazione. Un momento per dirsi cosa ha funzionato e cosa no. «Mi sono sentito riabilitato come cittadino», confida Federico, «ho pensato a quanti di noi si sono sentiti sfigati, colpevoli, reietti. E ora si sono ripresi la propria vita in mano».

«Sfruttate la nostra esperienza», è una delle raccomandazioni di genitori e ragazzi rivolta ai servizi e alle istituzioni. Ma anche: aumentare i luoghi di ascolto, costruire percorsi per tutti i genitori, prestare più attenzione ai tempi di ascolto e alla continuità degli assistenti sociali, lavorare in modo sinergico tra le istituzioni. «Abbiamo condiviso che la relazione di aiuto si costruisce insieme», spiega Paola. «All’inizio mi sembrava che l’assistente sociale mi tenesse a distanza, poi ho capito che è una forma di protezione. Quando mi sono aperta, e fidata, ho trovato un aiuto e una guida. Ma il primo messaggio che vorrei dare è che bisogna superare la paura e la vergogna, quando pensi di essere il solo ad avere quel problema. Bisogna che chiedere aiuto diventi una cosa normale».

«C’è, da parte di molti genitori, il timore di essere giudicati come incompetenti», ammette Francesca Ruozzi, assistente sociale. «A noi questo percorso di formazione ha lasciato un monito, alle persone bisogna dare tempo e fiducia, riconoscere le potenzialità anche residue di una famiglia. I rischi per un bambino, che a volte esistono, ma anche le capacità dei genitori». Perché se una famiglia è fragile, «non è detto che sia una colpa», aggiunge Nicoletta Tomasi, 36 anni di lavoro come educatrice all’Associazione provinciale per i minori, «nella vita ci sono anche fatalità e sfortune, come servizi dovremo fare uno sforzo per spiegarlo anche ai bambini, il non detto crea sempre separazione».

Racconta ancora Federico: «Dodici anni fuori casa sono un tempo lungo che crea una frattura e in un bambino produce rabbia nei confronti di chi pensi che ti abbia abbandonato». «Nel tempo conosci altre persone e altri modelli di riferimento, e questo non deve essere vissuto come una minaccia dai genitori». La scommessa della trasformazione dei servizi sociali, in questi anni, parte anche da qui. «Non si può più lavorare solo con i minori pensando di proteggerli separandoli da un contesto», sottolinea Nicoletta, «quello che dice la famiglia ha un valore e va ascoltato».

Se la mentalità in questi anni è maturata, non tutto ancora funziona. I cambiamenti richiedono tempo. Può capitare che un papà che vuole vedere il suo bambino per il compleanno, si senta rispondere dalla struttura che “oggi non è il caso, c’è il corso di nuoto”. O che il suo regalo non vada bene, “perché non ha la certificazione europea”. «La soluzione - avverte Francesca - non può che passare da un confronto tra le ragioni delle strutture e delle famiglie».

E poi c’è il “dopo”, quando il peggio sembra alle spalle, e il percorso del minore fuori dalla famiglia fortunatamente si conclude. «Mio figlio vorrebbe tornare a casa ma oggi io so che questo non può avvenire da un giorno all’altro, c’è bisogno di una continuità e di un sostegno», riconosce mamma Michela. Ma garantire un aiuto a domicilio ha un costo economico. Anche con questa realtà fanno i conti genitori, bambini e servizi sociali.

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