«In Bossi e Berlusconi rivedo gli eterni “vitelloni” italiani»

Lo scrittore domani a Trento: «Racconto il potere attraverso le sue icone»


di Paolo Morando


di Paolo Morando

La cronaca detta spesso i tempi alla saggistica: tanto che i primi instant-book sulla “family” leghista sono già usciti. Marco Belpoliti, critico letterario e saggista, con “La canottiera di Bossi” (Guanda, 112 pagine, 10 euro) ha però anticipato tutti. Pubblicato a fine febbraio, poco più di un mese prima delle inchieste sull’utilizzo dei fondi pubblici da parte del Carroccio, il suo libro non tratta ovviamente di Belsito, di Rosy Mauro, della laurea del “Trota”. Analizza invece la fenomenologia del “senatùr”, partendo dai dettagli che tutti conosciamo: la voce roca, il dito medio, la pernacchia. E appunto la canotta. Così diversa rispetto a quella del Craxi dei congressi di primi anni ’90, impregnata di sudore ma indossata da un leader ancora potente e vigoroso. Non come il Bossi di oggi. «Dalla malattia in poi - afferma Belpoliti - il suo corpo è diventato la rappresentazione di quello della Lega: colpito nel fisico, leso, invecchiato, in questi anni è stato comunque sorretto dalla fede del popolo leghista, in una sorta di osmosi. Ma questo sostegno non era reciproco: Bossi non poteva più dare quello che ha dato nei due decenni precedenti. La sua forza s’è spenta. E a questo punto la famiglia ha avuto il sopravvento. D’altra parte, come ha scritto Lynda Dematteo nel suo “L’idiota in politica”, la Lega è un partito nato in casa, creato con la moglie Manuela: è un partito familiare, formato assieme a sorella, e cognato, benché poi espul. si».

L’eterno “tengo famiglia” che Longanesi suggeriva di apporre sul tricolore, carattere italiano per eccellenza.

Sì, anche se in questo caso parlerei di famiglia in senso lato. La cerchia familiare come cioè la intendevano gli antichi romani, allargata ai “clientes”.

Nel suo ultimo libro si sofferma a lungo su un’immagine di Bossi e Berlusconi: quando il presidente del Consiglio, in Parlamento, accarezza il capo del leader leghista. Perché l’ha tanto colpita?

Prima di tutto perché parlava di un rapporto di confidenza, di affetto vero. Poi perché dice anche dell’altro: mi è apparsa come il gesto di un feudatario verso il proprio sottoposto, non insomma un semplice gesto paterno. Sappiamo che nei luoghi della gerarchia esiste l’affettività, non c’è solo quella familiare. È l’affettività dei capi. Mi è sembrato che un gesto di questa natura sancisse anche l’allontanamento dalla scena politica di Bossi, un leone che sempre ruggiva ma senza mai mordere. Perché se ci pensiamo è proprio questa la classica performance bossiana, a partire dagli strepiti in occasione dell’arrivo sulle nostre coste delle barche di immigrati. Campi di concentramento per extracomunitari non ne hanno creati, il federalismo non lo hanno realizzato, le regioni del Nord non si sono separate dalle altre. Solo fanfaronate.

Insiste molto anche sul parallelismo tra Bossi e i “vitelloni” raccontati da Fellini. Visto il suo declino, ne vede in arrivo altri sulla scena politica?

Francamente no. La figura di Bossi in questo senso è tipica: il mediocre di successo che al bar la sa più lunga di tutti, quello che non si è mai laureato dopo aver finto di esserlo. Ma nella misura in cui si è imposto in politica, è una figura unica che credo non si ripeterà per lungo tempo.

E Berlusconi? Quando tre anni fa ha scritto “Il corpo del capo”, partendo dal caso di Noemi Letizia, il ciclone Ruby doveva ancora arrivare.

Per Berlusconi parlerei di priapismo invernale, quello delle persone anziane, che è poi un’altra forma del culto di se stessi. Lasciando da parte i giudizi morali, su cui possono esserci visioni diverse, Berlusconi ha instaurato appunto un priapismo, dai caratteri però realmente innovativi: l’eccesso di potere che porta a sentirsi intoccabili e a fare tutto quello che si vuole.

Come nello strepitoso sketch di Corrado Guzzanti ad “Avanzi” sulla Casa delle libertà: orinava sul divano, cantando “nella Casa delle libertà facciamo un po’ come c... ci pare”.

Non la conosco, non ho la televisione da 15 anni. Anche questo rientra comunque nel carattere raccontato da Fellini: il profondo infantilismo italiano. Ma il priapismo di Berlusconi sposa due elementi: da un lato il culto precristiano della grande madre, con un paganesimo di fondo, dall’altro la cialtroneria e il pressapochismo che sono tipici del vitellone, che basa tutto sull’improvvisazione. Da questo punto di vista Berlusconi incarna alla perfezione i luoghi comuni illustrati nella “Città delle donne”. Ricorda? Mastroianni sognante davanti ai ritratti di quelle che ha posseduto, un intero harem... Fellini ha raccontato molto bene l’anima infantile, narcisista e solipsista del vitellone. E nell’incontro tra quello fallito, il Bossi mai laureato, e il “bauscia”, il Berlusconi a cui è riuscito di diventare straricco grazie alle tv commerciali, è scattato qualcosa di profondo.

È come se si fossero annusati e riconosciuti?

Proprio così. Benché per molti aspetti l’uno sia l’opposto dell’altro. Non tutti i vitelloni vogliono le stesse cose. Berlusconi insegue l’eterna giovinezza, vuole uccidere il tempo, sopravvivere a se stesso. Bossi è più autentico più “basico”. E infatti su di lui il tempo ha lasciato segni.

Già quarant’anni fa Pier Paolo Pasolini, sul quale lei molto ha scritto, parlava di mutazione antropologica degli italiani. Che cosa direbbe oggi?

Pasolini aveva già visto tutto allora: basterebbe rileggere tante frasi dei suoi “Scritti corsari” e delle “Lettere luterane”. Io stesso ho scritto della pornotopia delle case di Berlusconi, paragonandole all’ambientazione del film di Pasolini “Salò-Sade”. Se fosse vivo, Primo Levi parlerebbe giustamente di “pornochic”.

Le case sembrano essere una sua ossessione. Due settimane fa ha scritto sulla Stampa della villa sequestrata a Nicola Schiavone, figlio di Sandokan, il capo del clan dei casalesi: una villa regno del kitsch.

Scrivevo che aveva come modello la pubblicità, attraverso il meccanismo dell’imitazione: ogni oggetto rinviava a qualcos’altro, perché la cultura dei camorristi è copia di una copia. Le case dicono sempre molto delle persone che le abitano.

Nei giorni scorsi, al Salone del libro di Torino, ha moderato un dibattito incentrato sull’avvento dell’e-book e il futuro dell’editoria. E pure lei ora è diventato editore online, attraverso il sito Doppiozero. Che cosa crede che accadrà?

Il discorso è complesso, ma la svolta è in corso e rischia di far sparire la figura dell’editore tradizionale e dell’attuale sistema di autori, redattori, correttori, traduttori, stampatori e distributori. Internet supera tutto questo. La questione è aperta e interessante, siamo solo agli inizi. E già ora nulla è più come prima.

Sopravviveranno i libri come li abbiamo sempre conosciuti?

Rispondo ricordando che fino alla Rivoluzione francese i nobili europei dei libri facevano a meno: preferivano farsi copiare i testi da amanuensi, come nel 13° secolo. Oggi ragioniamo sul comportamento delle generazioni digitali, ma tra quindici anni tutto sarà ancora diverso.

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