l'intervista

«Il mio cuore in Siria Questo è uno sterminio»

Nibras Breigheche, donna e guida religiosa, parla di profughi, convivenza e Islam. «Il velo? Una scelta, non una costrizione. Anche per le mie figlie»


di Chiara Bert


TRENTO. Il suo grido per Siria libera dura da anni. E adesso che siamo all’assedio finale di Aleppo, con l’esodo dei civili sotto il tiro dei cecchini, Nibras Breigheche ieri era in piazza Duomo, a denunciare il genocidio del popolo siriano. Figlia dell’imam trentino Aboulkheir Breigheche, Nibras è una donna musulmana di 40 anni, madre di due figlie adolescenti, insegnante di lingue e mediatrice interculturale, membro del direttivo dell’associazione islamica italiana degli imam e guide religiose. È nata in Italia dove i suoi genitori sono arrivati negli anni ’70.

Nibras, con quali sentimenti sta vivendo le notizie che arrivano da Aleppo?

Con angoscia. Stiamo assistendo a uno sterminio, alla deportazione dei civili dopo anni di assedio per fare spazio agli occupanti di turno, l’Iran che sta completando il proprio piano di egemonia nella regione, e la Russia.

Cosa poteva fare l’Occidente? Andare in guerra contro Assad?

Non necessariamente un intervento militare, si poteva fare di più in termini di pressione politica. In Siria c’è un regime sostenuto da altri regimi perché Assad resti al potere a costo di cancellare il Paese. L’accordo tra Stati Uniti e Iran ha lasciato campo libero.

Lei ha ancora parenti in Siria? Come stanno?

Dall’inizio della guerra nel 2011 poco più di metà della nostra famiglia è fuggita dalla Siria. Ma l’altra metà è ancora là, soprattutto zii che per l’età non se la sono sentita di abbandonare le proprie case. Vivono in una cittadina a 30 chilometri da Damasco che in questi anni ha accolto un milione di profughi, e oggi è accerchiata dalle milizie del regime. Ma quando c'è l'energia elettrica riusciamo a comunicare.

Cosa pensa che accadrà?

La storia ci insegna che la volontà popolare alla fine vince. Succederà anche questa volta.

Lei parlava di profughi in Siria. A centinaia di migliaia sono arrivati anche in Italia. In Europa abbiamo visto l'accoglienza ma anche i muri. E anche in Trentino ci sono stati episodi di rifiuto, a Soraga e Lavarone. La preoccupa?

La manifestazione del 6 dicembre a Trento ha dimostrato che la stragrande maggioranza dei trentini sono persone accoglienti. Se come Associazione Insieme per la Siria libera siamo arrivati al 20° container di generi di prima necessità e medicinali da inviare in Siria, è anche grazie all'aiuto di tanti trentini. Gli episodi di rifiuto mi sembrano casi isolati.

Cosa risponde a quegli italiani e trentini che dicono "va bene i rifugiati ma non possiamo accogliere tutti, gli altri immigrati vanno mandati a casa"?

Io penso che se una persona rischia la vita e tutto quello che ha per salire su un barcone e affrontare il mare, vuol dire che fugge da una situazione drammatica. Il diritto alla vita viene prima di ogni altro.

Lei fa la mediatrice culturale. Come le sembra il grado di integrazione tra italiani e stranieri in italia?

La Francia ha scelto, nei confronti degli immigrati, una politica di assimilazione che è arrivata fino a vietare i simboli religiosi e che ha fallito, in Gran Bretagna il multiculturalismo spesso si è tradotto in una ghettizzazione. In Italia si sta sperimentando una terza via che punta al riconoscimento reciproco delle culture e delle religioni. La sfida è evitare che le terze e quarte generazioni di immigrati si sentano in italia “cittadini di serie b”.

Qualche anno fa in un’intervista, lei rispondeva di non aver vissuto personalmente episodi di razzismo. Il clima è cambiato?

Ho la fortuna di lavorare in ambito culturale e interreligioso. Personalmente non ho vissuto episodi di islamofobia. Anche se le statistiche ci dicono che in Italia il clima purtroppo è peggiorato, legato al fenomeno di chi strumentalizza e addita i musulmani come causa del terrorismo.

È una realtà però che in Europa molti giovani musulmani sono diventati terroristi o in che partono per combattere con l'Isis in Siria e Iraq. Il fatto che lo facciano in nome della religione non pone un problema all'Islam?

Le ricerche dicono che questi giovani adescati dall’Isis sono giovani cresciuti in contesti distanti dalle moschee e dai centri islamici. Questo ci dice che il loro integralismo è il frutto spesso di emarginazione sociale, combinata a una fragilità personale. E questo rende ancora più importante il ruolo delle guide religiose per prevenire ed educare.

Lei indossa il velo. Come spiega che molte ragazze immigrate di seconda generazione indossino il velo quando le loro madri lo hanno tolto? C’è in questo una reazione al fatto di sentire la propria identità sotto attacco?

Sinceramente ho a che fare ogni giorno, per il mio lavoro, con molte ragazze, e non percepisco la scelta del velo come reazione. Anche perché il velo è una pratica religiosa impegnativa, richiede convinzione.

Perché?

Perché molti danno per scontato che sia un’imposizione mentre nel 99% dei casi non è così, è frutto di una maturazione spirituale. Il Corano dice “non c’è costrizione nella religione”. Ricordo quando, adolescente, una mia insegnante che stimavo mi chiese: “Ma quante bastonate hai preso per portare il velo?”. Ero scioccata.

Le sue figlie hanno 18 e 17 anni. Lo portano?

Sì, con stili diversi, per loro scelta. Hanno amiche che frequentano anche fuori dalla scuola e mi fa piacere vedere che da parte di molte ragazze c’è rispetto per questa scelta.

E l’amicizia con i ragazzi?

La religione islamica non impedisce di interagire con l’altro sesso, dà dei limiti per il contatto fisico a chi è praticante. Nemmeno da questo punto di vista ho mai avuto problemi.

Resta il fatto che in nome della religione in molti Paesi islamici le donne non hanno diritti.

Il problema esiste, ma occorre ampliare lo sguardo. Parliamo di Paesi dove i diritti civili non sono garantiti, di regimi che sfruttano l’oppressione, la povertà, l’ignoranza anche religiosa. È in questo contesto che le donne pagano il prezzo più alto.

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