agricoltura

Il meleto biologico insidiato dai veleni spruzzati dal vicino

Un frutticoltore di Spormaggiore ha portato in tribunale il collega: gli avrebbe causato 7mila euro di danni


Paolo Tagliente


TRENTO. Produrre mele biologiche? È possibile, certo, ma non sempre è facile. E non stiamo parlando degli insetti e dei parassiti che minacciano lo sviluppo dei frutti. No, le insidie possono arrivare anche dagli altri frutticoltori. Ne sa qualcosa il titolare di una azienda agricola biologica di Spormaggiore che ha trascinato in tribunale il collega proprietario del meleto accanto al suo. La colpa di quest’ultimo non è tanto quella di curare le sue piante con i metodi tradizionali, e cioè spargendo antiparassitari e anticrittogramici, ma piuttosto - almeno secondo l’accusa - di mostrare scarsa attenzione alle esigenze del vicino, facendo finire le sostanze chimiche sopra i meli biologici vicini al confine tra le due proprietà. Meli che, così facendo, non possono certo più essere considerati biologici. Questo il nocciolo del processo iniziato ieri in tribunale a Trento, dopo l’ordine di imputazione coatta firmato dal gip Forlenza seguita alla richiesta di archiviazione del procedimento penale da parte della Procura. Davanti al giudice Giovanni De Donato, da una parte il frutticoltore “tradizionale”, accusato di danneggiamento e difeso dagli avvocati Giovanni Rambaldi e Franco Busana, dall’altra quello “bio”, costituitosi parte civile e assistito dall’avvocato Tommaso Fronza. Una vertenza singolare che, come ha detto Busana, può rappresentare un “processo pilota” in una regione vocata alla coltivazione delle mele e dove, di casi analoghi, ce ne sono moltissimi. Con il rischio concreto che, se dovessero essere accolte le istanze dell’accusa - sempre secondo la difesa - approdino tutti in tribunale.

Sul fronte opposto, invece, un coltivatore che negli anni ha investito su una produzione biologica e che lamenta danni ingenti: nel 2012 duperiori ai 3mila euro e nel 2013 oltre i 4mila. A causarli il declassamento delle mele prodotte sulla fascia di confine con l’impianto dell’altro frutticoltore. Per colpa dei trattamenti con sostanze chimiche eseguiti da quest’ultimo nel corso dei mesi, infatti, i frutti cresciuti sulle piante di quella zona sono stati irrorati con prodotti antiparassitari e non possono quindi essere considerati biologici. E di conseguenza il loro valore di mercato è inferiore. Tutto si sarebbe potuto evitare, secondo l’avvocato della parte civile, se il trattamento con agenti chimici fosse stato eseguito con attrezzature diverse: con l’atomizzatore nelle parti più interne del meleto mentre sul confine con attrezzature a mano, in grado di ridurre o addirittura annullare la “deriva”, il fenomeno di spostamento e dispersione della sostanza fuori dall’area trattata. Sull’altro fronte, invece, si ribadisce la regolarità del comportamento dell’imputato e si ribatte che non c’è certezza del fatto che le sostanze chimiche trovate sulle mele (ex) bio fossero state sparse dallo stesso, ipotizzando anche che possano essere arrivate lì da altri impianti, portate dal vento. Ma lo scontro è ancora più ampio, tra due modi opposti di vedere la frutticoltura. L’udienza è stata aggiornata a marzo e si preannuncia una battaglia di consulenti. Tra i testi chiamati in aula dalle parti, la difesa - che tra i documenti depositati ha un’ordinanza sindacale- ha chiesto di sentire anche il sindaco e l’assessore di Spormaggiore.













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