Il dramma a 50 anni: soli e senza lavoro

Ferrari (Cedas): «Anche gli imprenditori si impegnino per i nuovi disoccupati». Don Nicolli: «Cristiani, fate la vostra parte»


di Giancarlo Rudari


ROVERETO. Hanno tra i quaranta e i cinquant’anni, sono soprattutto uomini e spesso vivono soli perché separati: è l’identikit dei nuovi poveri non stranieri ma italiani, anzi trentini o meglio ancora roveretani. Sono loro le nuove vittime della crisi, dei licenziamenti, del lavoro che non c’è. E che spesso per sopravvivere sono costretti a rivolgersi ai centri di aiuto per chiedere da mangiare e da vestire. «E’ vero - spiega Roberto Ferrari, coordinatore del Cedas - che ultimamente c’è stato un aumento di persone, soprattutto uomini rimasti senza lavoro, che si trovano in grandissime difficoltà. E non si pensi che siano solo stranieri, anzi. Tuttavia spesso non si rivolgono a noi per chiedere un sussidio, anche se ovviamente è importante per far fronte ai bisogni primari, ma per chiedere un lavoro, la possibilità di trovare un’occupazione che dia loro una dignità, che non faccia pesare il fatto di dover chiedere un aiuto economico».

Per Roberto Ferrari bisogna «prendere coscienza di questa realtà» evidenziata anche dal decano don Sergio Nicolli nell’omelia del giorno di Maria Ausiliatrice. E prendere coscienza significa «impegnarsi per trovare forme di aiuto che portino ad un’occupazione. Perché non siano solo chiacchiere, ipotizzo un tavolo che comprenda il mondo ecclesiale, gli enti pubblici e il mondo imprenditoriale. E proprio con il contributo degli imprenditori penso che si possa trovare una soluzione congiunta magari con il rafforzamento di Azione 10 (l’ex progettone ndr) o nuove formule che comunque diano occupazione. Si potrebbe anche realizzare una sorta di fondo attraverso un’autotassazione per iniziative finalizzate al lavoro» spiega Ferrari.

Ma al di là di interventi strutturali («ben vengano, sono importantissimi»), don Sergio Nicolli con la sua omelia ha voluto spronare «la comunità cristiana a fare un esame di coscienza per impegnarci tutti in prima persona ad aiutare le persone che sono in difficoltà. Quali azioni in concreto? Ad esempio chiedere alle aziende di lavorare meno per evitare i licenziamenti: e questo non spetta alla comunità ecclesiale, ma ai cristiani. Eppoi chi ha un lavoro e uno stipendio penso che potrebbe destinare una percentuale del 10 o 20 per cento per aiutare chi si trova in una situazione grave, per garantire un minimo vitale a chi non ha niente. Le famiglie potrebbero così autotassarsi per destinare il loro contributo ad un organismo che si faccia garante nella distribuzione dei fondi».

Quello di don Nicolli è dunque un appello «a noi cristiani per non restare insensibili difronte alle nuove emergenze. Bisogna dare una spinta perché si creino iniziative per venire incontro alle situazioni di povertà di famiglie delle nostre comunità. Come cristiani - dice il decano - non possiamo limitarci a guardare rassegnati e magari a ringraziare Dio quando questa sorte di trovarsi nella lista dei bisognosi non li tocca personalmente. Dobbiamo guarire dal consumismo e fare un passo indietro per crescere in una mentalità che ci liberi dal possesso geloso dei nostri beni e ci persuada che quanto abbiamo in più, rispetto a una vita dignitosa ma sobria, appartiene ai poveri che ci vivono accanto».

E che bussano magari «alla mensa della casa di accoglienza per un pasto, che si rivolgono al banco alimentare per il pacco viveri, che per vestirsi si rivolgono al negozio Altro uso di piazza Indipendenza» come ricorda Cristian Gatti di Comunità solidale. Perché chi perde lavoro, perde magari anche la casa e la famiglia: situazioni nelle quali si trovano anche molti roveretani.

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